TORNANO I CONTI. Non è stato un parto facile, ma a questo punto l’importante è che parta. Il «Pro Tour» salperà, dopo una lunga gestazione e un doveroso confronto con i Grandi Giri, che «proprio sul più bello - come hanno avuto modo di dire alcuni dirigenti dell’Uci - , si sono impuntati?». Cinque le questioni che hanno portato al brusco rallentamento: riconoscimento dei diritti storici delle corse (le corse sono cosa loro, non dell’Uci); problema del valore giuridico della licenza (l’Uci avrebbe voluto dare una licenza a Giro, Tour e Vuelta per far parte del «Pro Tour»: ma su quali basi? La corsa è di proprietà degli organizzatori, e il concetto di licenza - a livello legale - è quantomeno fuorviante); qualità sportiva (numero di squadre e quant’altro); questione etica (possibilità di non accettare corridori con procedimenti giuridici in corso); promozioni e retrocessioni. In questo quadro appare forse poco il punto più scottante: quello dato dalla parternità dei diritti televisivi, che gli organizzatori neanche si sognano di dover spartire con qualcuno.
Perché si è arrivati allora a discutere di queste cose nel momento in cui si doveva chiudere la questione con una firma? Perché non se n’è discusso prima? Semplice. Quando i dirigenti Uci dicono «erano tutti d’accordo, poi gli organizzatori hanno fatto marcia indietro proprio sul più bello», dicono il vero ma non tutta la verità. I Grandi Giri erano d’accordo in linea di principio, in attesa di conoscere le condizioni dell’accordo, le regole per intenderci. Quando hanno preso visione si sono accorti che molte cose non erano chiare o per lo meno non andavano.
Altro fatto non secondario. In questi mesi in casa Giro, Tour e Vuelta ci sono stati parecchi movimenti e ribaltamenti. Sono cambiati in pratica uomini e cariche. Le basi sono state gettate da una dirigenza e alla firma se ne è presentata un’altra. Verbruggen aveva fatto i conti - e affidamento - con alcune persone, poi ha dovuto fare i conti con altri. E questa volta per farli tornare ha dovuto faticare non poco.
CERTIFICATO DI QUALITA’. Alla fine, il 14 ottobre scorso, Dario Cioni, il corridore fiorentino escluso dalla Nazionale alla vigilia del Mondiale di Verona per non aver superato gli esami medici preventivi della Federciclismo, è riuscito a far valere la propria buona fede. Ai controlli del sangue di giovedì 1° ottobre, ai quali si erano sottoposti tutti gli azzurri di Franco Ballerini, i suoi valori di ematocrito ed emoglobina superavano i limiti del 50 e del 17% e Dario è stato sospeso - come da regolamento - per 15 giorni a tutela della sua salute.
Saltato il Mondiale, Dario non si è fatto prendere né dallo sconforto né tantomeno dalla frenesia. Prima si è laureato in marketing sportivo all’European School of Economics e poi si è recato all’Uci per certificare i suoi valori ematici, elevati per natura. Ha prodotto anche una serie di dati storici e familiari (valori ematici del fratello) riguardanti la sua salute. L’esito è stato favorevole e di fatto il massimo organismo del ciclismo mondiale non ha potuto far altro che certificare la sua buona fede. Buona fede che era stata riscontrata anche a Verona, sabato 2 ottobre, il giorno seguente la sua non idoneità. Non avendo nulla da nascondere né tantomeno da temere, Cioni infatti si era sottoposto volontariamente ad un controllo antidoping sulle urine con gli stessi medici dell’Uci. Era certo di quello che andava dicendo. «Sono pulito».
Adesso, lo sappiamo, sono molti quelli che vanno in giro facendo i classici sorrisini di chi la sa sempre più lunga. Per la serie: ecco un altro corridore con il certificato. Chissà cosa c’è dietro. Non sapendo che, a detta di medici ed esperti in materia, questi atleti dietro hanno davvero ben poco, se non una storia genetica che di fatto li scagiona. Questi ragazzi sono davvero i più penalizzati e probabilmente gli unici che possono davvero garantire una certa trasparenza e credibilità. I loro valori sono naturalmente elevati, ed è praticamente impossibile intervenire. È chi ha valori ematici e di emoglobina bassi che può colmare il gap. Chi è già al limite, è “costretto” da madre natura a non rischiare. In poche parole il certificato è anche una sorta di certificato di qualità. Quindi, basta sorrisini. Please.
VITTIMA DELL’11 SETTEMBRE. Il caso di positività di Tyler Hamilton ha scosso molto il mondo del ciclismo, in particolare quello americano, che per Tyler letteralmente stravede. Non è Armstrong, ma il campione olimpico della cronometro si è ritagliato anch’esso in questi anni una gran bella fetta di popolarità e considerazione. Da Las Vegas, dove si è tenuta una delle più importanti fiere di settore, i pareri erano unanimi: noi crediamo a Tyler. In pratica credono alla buona fede del corridore, e di conseguenza in un errore scientifico. Come ci si ricorderà dopo i Giochi di Atene, i test antidoping avevano rivelato un eccesso di globuli rossi nel sangue di Hamilton, probabilmente dovuto a trasfusioni. Il Cio, tuttavia, non aveva potuto squalificare il ciclista in quanto il secondo campione di sangue - necessario per provare la positività - era stato erroneamente congelato. Quello che resta, però, è la positività riscontrata al Giro di Spagna, sempre per trasfusione di sangue, pratica vietata e sanzionata dai regolamenti sportivi. La positività è stata registrata l’11 settembre al termine dell’ottava tappa della corsa spagnola (la cronometro di Almussafes vinta dall’americano e dedicata alle vittime delle Torri Gemelle), sei giorni prima cioé che il corridore della Phonak si ritirasse ufficialmente per un banale mal di stomaco. Ma Hamilton sarebbe risultato fuori regola già al controllo antidoping dopo il trionfo nella crono olimpica di Atene (18 agosto). Questo è il primo caso di individuazione di una trasfusione di sangue: un evento destinato a diventare un caposaldo nella storia della lotta al doping, che al Tour aveva registrato altri successi grazie all’introduzione del metodo per la ricerca dell’emoglobina sintetica nel sangue. Hamilton è quindi la prima «vittima» del nuovo metodo messo a punto dagli specialisti australiani dell’istituto di ematologia di Sydney, in collaborazione con quelli dell’Uci, che permette di stabilire se vi sia stata o no una trasfusione da donatore compatibile. Una tecnica già usata nella medicina legale per i test di paternità, in alternativa alla ricerca sul Dna e che in campo sportivo viene applicata solo dai laboratori di Losanna e Atene. Tutto questo per dire una cosa molto semplice: se i colleghi americani credono che tutto questo sia non credibile, che convochino scienziati di fama capaci di dire e dimostrare a chiare lettere che il Cio e l’Uci stanno sbagliando. Altrimenti, che non ci disturbino con i soliti piagnistei. Le vittime dell’11 settembre, purtroppo, ci sono già state. Non ne vogliamo una di più.
Pier Augusto Stagi
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