E’appena arrivato secondo, alla cronometro di Atene, guadagnandosi l’argento: che a trentotto anni avanzati, pagando un dazio di 19” ad Hamilton, è pure un gran bel risultato. Ma l’immagine che di Ekimov ci resta più scolpita dentro, dal punto di vista umano, resta quella del gesto di gioia, all’unisono con Armstrong ed Hincapie, alla fine della vittoriosa cronosquadra di Arras, al Tour di quest’anno, che avrebbe proiettato proprio il suo capitano Armstrong in vetta alla classifica.
In quel moto di semplice felicità, di spontanea partecipazione ad una gloria in qualche modo innanzitutto altrui, leggemmo a lettere ancora più nitide l’umanità ed il carisma di un atleta che troviamo per più versi esemplare. E che affidiamo, come corridore dopo averlo onorato come uomo, alla riflessione dei nostri tecnici, oltre che degli appassionati: mentre ci scorrono innanzi, e forse ci intristiscono, le immagini degli inseguitori australiani e dei velocisti francesi, rutilanti alle Olimpiadi di Atene...
Ekimov, un campione del mondo dell’ora, è il prototipo finissimo di un ciclista che ci manca profondamente. Il prototipo, per certi versi assimilabile a Francesco Moser, di un atleta dal plusvalore che ha cominciato a correre ed a vincere in pista, da inseguitore, a metà anni ’80, prima di trasferire - senza diluirle - le sue qualità e la sua souplesse su strada, nel lontano 1990. Ecco, l’archetipo di un ciclista, comparso da dilettante in maglia URSS col titolo mondiale nell’inseguimento proprio in Italia, a Bassano, che dalla disciplina metodica della pista ha saputo trarre insegnamento ed elasticità. Affinando queste proprietà naturali, su strada, fino a diventare un finisseur, ed un cronoman, aristocratico. Campione olimpico a Sidney, nel 2000, lì dove Ullrich si perse per 8”, e dove proprio Armstrong, terzo, fu il primo a festeggiarlo, Ekimov traccia, per linearità di una storia atletica, un percorso che non riusciamo a comprendere perché non possa trovare proseliti. (Se non in Australia, ovviamente con pistard-cronomen come McGee...). E perché questo non accada, non possa accadere in Italia, in primis.
Abdichiamo al ciclismo su pista, salvando Ciccone e la Carrara, ed abdichiamo alla stessa misura, ormai, pure alle cronometro?
Non avevamo proprio altra scelta, per Atene, se non l’iscrivere alla gara contro il tempo uno solo dei cinque atleti convocati per la prova su strada, quel Pozzato che per giunta avrebbe rinunciato per influenza?
Bisogna partecipare alle Olimpiadi solo se si è sicuri - o quasi - di vincere, perché siamo italianamente troppo furbi o troppo presuntuosi? Non riusciamo a comprendere, e ci risulta sempre più difficile adeguarci a questo modus vivendi. È dignitoso che la nazione ciclisticamente leader del ciclismo internazionale non sia in grado di schierare due atleti alla cronometro olimpica, o peggio che non ritenga doveroso onorare la gara, designando tra i cinque selezionati per Atene una eventuale riserva, a fronte di accidenti e malesseri sempre in agguato?
Non capiamo. E sentiamo più congeniale, anche ad uno spirito come si dice «olimpico», l’ultimo posto del polacco Slavomir Kohut, ad otto minuti e passa da Hamilton, che la nostra sconcertante latitanza. Pista e crono, il tandem guidato metaforicamente da Viatcheslav Ekimov, passa ancora per il nostro cuore e per la nostra passione.
Vorremmo tenacemente quartetti, cronosquadre, inseguimenti, staffette, trofei Baracchi, vorremmo bici roteanti a ruota: vorremmo la musica delle ruote che girano in sincronia...
Le rivedremo, lo chiediamo al caro Ballerini, in maglia azzurra?
Senza dover restare coniugati alla suggestione romantica di Ekimov. Quel russo di Vyborg, alterego prediletto di un americano come Lance Armstrong, che ad Atene, guarda gli intrighi della vita, sarebbe stato preceduto proprio da quell’altro americano, Tyler Hamilton, che al Tour del 2000 era un altro dei luogotenenti della sovrana Us Postal.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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