E’partito ormai il Tour de France più atteso della storia recente.
È partita, la corsa a tappe francese, con il tentativo, da parte di Lance Armstrong, di vincere il suo sesto Tour, per giunta consecutivo, e di stabilire così il record assoluto di successi nel più grande evento ciclistico del mondo. Riuscirà Armstrong nell’impresa fallita a suo tempo da Anquetil e da Merckx, da Hinault e da Indurain, fermatisi tutti e quattro sul limite fatidico dei cinque Tour ?
Ma, innanzitutto, oggi che l’avventura di Armstrong è ripetutamente oggetto di denunce, insinuazioni e chiacchiere, libri-scoop velleitari compresi, sul fronte del doping, chi l’avrebbe mai detto, ai primi del ’98, al ritorno in bici di Armstrong, che sei anni dopo saremmo stati qui a porci queste domande, sulla sua gloria assoluta?
Ma ve lo ricordate, Armstrong, al ritorno in sella, spaurito, febbraio ’99, in una breve corsa a tappe spagnola, la Ruta del Sol, dopo il black-out drammatico della malattia ? E quella nuova prima vittoria, di giugno, nella prima tappa del Giro del Lussemburgo, battendo in volata lo sfortunato Aus?
Bene, questa resta, a nostro avviso, lo si voglia o no, con tutte le riserve e le relative simpatie (molto tiepide, e anche da parte italiana) per il ciclista statunitense, la cosa più incredibile. Chi l’avrebbe mai detto, allora, che la tenacia e il vigore interno di un uomo che era stato ad un passo dal pollice verso - «ad un certo punto, sapevo di avere il 50 % di possibilità di vivere ed il 50% di morire» - si sarebbero sublimati a tale livello di vertice, nel ciclismo?
E personalmente, di fronte all’impegno assiduo che Armstrong continua ad offrire come testimonial della lotta al cancro, con iniziative coinvolgenti come il Tour of Hope o The Ride for Roses, resta sempre affascinante pensare che la bici, ai suoi piedi, sia il tramite per un progetto maggiore. Che dall’Alpe d’Huez o dalla cronosquadra di questo Tour, in altre parole, sull’immagine seducente di un Armstrong in giallo possa decollare una chance di ricerca e di vita migliore, per i meno fortunati, come i malati di cancro.
Che poi sia solo un para-ciclismo, quello di Armstrong, totalmente dedito al Tour, assente dai panorami europei per il resto della stagione, è un altro discorso. Con quanto di scelte civili, geografiche e personali vi è prioritariamente insito. E che d’altronde non è particolarmente distante, per affinità di linguaggio con il ciclismo di oggi, dalla latitanza dei corridori da classiche nei riguardi dei Grandi Giri o viceversa.
Pensiamo, ad esempio, al comportamento dei vincitori abituali delle corse di un giorno che nelle gare a tappe, pure quelle brevi, ci vanno al massimo per vincere una frazione e poi sgattaiolare via. Una fuga per la vittoria, come quella di Bettini, all’ultimo Giro della Svizzera. O una vittoria, per la fuga (consentita) a casa il giorno dopo ?
Armstrong, alla caccia del record, in Francia, allora. E tutti alla sua ruota. Ma ripensando a questo mondo che ha attenzione solo per i Grandi Eventi, e che non ammette più le stagioni e le misure medie, e ciclisticamente sottostima le gare a tappe di una settimana, ci viene in coda di plaudire quel Dario Cioni, terzo appunto al Giro della Svizzera, dopo essersi piazzato quarto al Giro d’Italia e quinto al Romandia. E gli ricordiamo un altro italiano, caro al nostro cuore di ragazzo di cinquant’anni fa, quel Pasquale Fornara che del Giro della Svizzera detiene ancora il record dei successi assoluti: quattro, da solo, uno più di Kubler e Koblet.
Perché nella vita, ed anche negli albi d’oro dello sport, ci si può stare alla grande, senza l’obbligo di essere Lance Armstrong.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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