Mi scuso subito per l’eventuale retrogusto di disfattismo che potrà lasciare la rubrica di questo mese. Ma continuare a far finta di niente sa troppo di ultimo ballo sul Titanic che affonda. Dunque, meglio cercare subito un pratico salvagente.
La questione è semplice e di un’evidenza solare: il ciclismo fatica ad attirare l’attenzione. Dopo averne attirata anche troppa nelle questure e nelle aule dei tribunali, non riesce ad attirarne nelle case, nei bar, nei circoli ricreativi. Di che e di chi parlare, in questo periodo? Soltanto noi, malatissimi di pedivella, possiamo perdere del tempo a capire chi siano questi Wesemann e questi Backstedt, questi Boonen e questi Menchov, tutta brava gente che ha certamente talento e fa la sua sporca fatica, ma che oggettivamente ha un appeal da lamette ai polsi. Almeno adesso, un domani chissà. Ma nell’attesa che diventino Coppi, alla gente normale e sana di mente non si può chiedere l’impossibile. Certi nomi, attualmente, smuovono al massimo una domanda sarcastica: Wesechiii?? E mi sembra giusto. Sarebbe come se un fanatico di basket, come il mio amico Angelo Costa, venisse a chiedermi conto del perchè non fremo di emozione per quel Pellacani tanto bravo, che nell’ultima partita ha segnato pure dodici punti. Come si meriterebbe, sarebbe investito di botte. Per emozionarmi, gli altri sport devono esprimere qualcosa di forte, di chiaro, di facile. Per esempio, ormai quasi tutte le mamme e le zie chiedono - la domenica sera - se abbia vinto Valentino o Maxbiaggi. Li chiamano così, uno soltanto col nome, l’altro con nome e cognome, come hanno imparato ad orecchiare durante le faccende domestiche, o buttando distrattamente l’occhio sulle pagine dei giornali: magari sui settimanali del gossip, dove regolarmente finiscono ormai i campioni popolari dello sport.
Vogliamo parlare dei nostri eroi? Io spero tanto in questo Giro e nel vicinissimo Tour, ma tutta una primavera se ne è andata senza che un cane qualunque si accorgesse del ciclismo. Abbiamo cominciato con la disgraziata sconfitta di Petacchi a Sanremo: un’autentica iattura, perché la sua consacrazione in Riviera avrebbe spazzato via molti dei problemi che stiamo analizzando adesso. A seguire, i Weisemann e i Bagsted. Grado d’interesse presso l’opinione pubblica: zero virgola. Grado di eccitazione: zero totale.
Già messa così potrebbe bastare. Per parlare di crisi, per interrogarsi su qualche idea. Invece, come sempre, i cervelloni che dirigono l’intero movimento ci mettono pure del loro. Anzichè correre in un angolo per un doveroso quarto d’ora di vergogna, riflettendo su come hanno ridotto uno sport di grandi individualità ad anonimo minestrone di mezze figure dove vincono in centomila, costoro fanno pure gli indignati. Ma come - urlano - i giornali italiani dedicano venti righe al vincitore di una Roubaix. Poi la solita aggiunta di improperi: provinciali, tifosi, meschini. Sì, i giornali cornuti: danno spazio al ciclismo soltanto se vincono i campioni. Ma tu pensa lo scandalo.
Non ho la minima intenzione di farmi trascinare in una di quelle noiosissime discussioni sul valore intrinseco dei Weisemann. Io, e con me i tifosi di ciclismo, so bene che per vincere una classica bisogna comunque avere qualche numero. Ma qui è in gioco qualcosa di più importante dello spessore tecnico di un corridore: qui c’è in gioco la popolarità di uno sport. Come può, questo sport, pensare di restare a larga tiratura, se fa di tutto per spersonalizzarsi e ingrigirsi? Ma ci rendiamo conto che il grande pubblico fatica a ricordare un nome e una faccia nel minestrone del ciclismo? A malapena, ultimamente, sono riconoscibili Armstrong, Ullrich, Cipollini, Petacchi, Bettini e Simoni. Dico a livello generale, oltre i ristretti confini del nostro mondo. Già dire Di Luca e Pellizotti suona vagamente ostrogoto.
E allora, cosa fare? Io spero vivamente che qualche mamma italiana abbia già scodellato il ragazzino che ci rapirà il cuore nei prossimi anni. Credevo fosse Pozzato, ma gli anni passano e sussiste qualche motivo per dubitare. Nell’attesa, preghiamo ardentamente perché la riforma dell’anno prossimo - serie A di grandi squadre impegnate nelle grandi corse - sia seria ed effettiva. Ma il problema - diciamolo francamente - resta allarmante: fino a quando non avrò la possibilità di vedere Armstrong e Ullrich, Simoni e Garzelli, Petacchi e Bettini, impegnati in confronti continui e ripetuti, il ciclismo continuerà a perdere fascino. Inutile e patetico risulterà sempre il paragone con la Formula 1 e il Motomondiale, se vogliamo copiarli solo per incassare le stesse cifre. Cominciamo anche a leggerli, questi fenomeni: guarda caso, mamme e zie si appassionano alle moto perché sanno che stavolta Valentino batte Maxbiaggi, ma magari già al prossimo Gp la musica cambierà. E comunque, sono certe che la prossima volta li ritroveranno lì, al loro posto, pronti a suonarsele di santa ragione. Per tutto l’anno, fino all’ultima corsa. E noi? Noi per assistere ad una rivincita tra due grandi rivali dobbiamo aspettare un anno, magari due. Poi dice che il pubblico non si affeziona più. Mi sa tanto che il pubblico del ciclismo sia ormai lo stesso di “Chi l’ha visto?”.
So già - per esperienza - che le suddette argomentazioni saranno bollate come qualunquiste e incolte dagli addetti ai lavori. Dico dei cervelloni che si indignano perchè i giornali non educano i lettori a godersi una pagina intera sul vincitore ostrogoto della Roubaix. A costoro, senza cercare di convincerli, dico soltanto questo: visto che in fondo capite soltanto il linguaggio dei soldi, com’è che fate questa fatica mortale a spillare denaro dalle casse degli sponsor? Non sarà che uno sport di mezze figure ostrogote interessi soltanto a voi?
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