Ci sono ancora le chiese di campagna. Ci sono ancora i prati. Ci sono ancora i ciclisti soli per davvero e le bici appoggiate ai muri. Ed il desiderio di una quiete. E c’è, da un paio di mesi, in Italia, una piccola - e nuova - cappella dedicata al Ciclista. In Campania, a Sommana, sotto l’abitato di Casertavecchia ed i suoi bastioni medioevali, circondata dalla brughiera, sorge la antica chiesetta di San Rocco, da poco affettuosamente restaurata, le mura istoriate da affreschi scolastici che hanno pagato un dazio pesante all’umidità dei secoli...
E lì, spontaneo quartiere di aggregazione del ciclismo di una provincia che predilige chiamarsi con il nome fiero di Terra di Lavoro, inserito miracolosamente nel presepio di una vita rurale che sembra scandire i suoi tempi ancora secondo natura, la domenica viene celebrata la Messa del Ciclista. Un sacerdote di campagna, don Pietro De Felice, una sagoma appena meno roboante di quella di don Pietro Carnielli - ve lo ricordate, l’anima sacra in carne ed ossa del Giro di Torriani ? - nel suo rosario di chiese disperse e messe da officiare per le frazioni vicine, ogni domenica alle ore 11, dedica la sua funzione ai ciclisti. Al Ciclista, appunto, con la iniziale maiuscola.
A quelli presenti, che sono arrivati in bici fino in vetta alla montagna. A quelli assenti. A quel disabile giovane che in bici non ci va più, ma vive sulla sedia a rotelle. A quelli che sono scomparsi. Se il ciclismo è un uomo e la montagna la sua donna per vocazione, la chiesetta di San Rocco santifica con discrezione, dischiusi i suoi battenti di legno pesante come aspettasse un ultimo ritardatario, questo matrimonio di amore. Come è stato domenica 22 febbraio con il pensiero volto a Marco Pantani.
Giorno di pioggia e bruma, il verde reso più intenso, Pantani sarebbe salito sopra a Casertavecchia, lì dove non è mai stato nella vita, nei cuori e sui pedali, nello sforzo dei cicloamatori che se lo tengono caro, lo sappiamo, come una figurina, ma non quella degli album Panini. No, oggi che non c’è più, stretto come la figurina religiosa di un santino o di una Madonna.
Come una Madonna di Lourdes, come la Madonna di Fatima dei fratelli Ochoa, come le devozioni di un qualsiasi scalatore spagnolo - Gomez del Moral, Lopez Carril, Fuente - che non abbia mai conosciuto la tentazione del mare.
Giorno di pioggia e di bruma, come in una tappa del Tour a Guzet Neige, le buone parole di ricordo che a lui specialmente non si possono negare, pensavamo curiosamente ad un Pantani celeste. No, non in rosa o in giallo, come nella iconografia del ciclismo agonistico che gli competeva: no, ma ad un Pantani celeste.
Giorno di pioggia e di bruma, senza misericordia, scrutavamo - senza trovarlo - un segno favorevole del cielo che ci confortasse.
E che a Marco, abbiamo detto, lui che con l’alto aveva confidenza, fosse lieve il cielo. Non la terra, buona al massimo per altri.
Giorno di pioggia e di bruma, i prati ancora senza margherite, non riuscivamo infine ad articolare un pensiero rivolto al futuro. Né al nostro, né a quello più semplice del ciclismo: la Milano-Sanremo di Cipollini e Petacchi...
O che la primavera ventura dell’anima e dello sport di uomini e ciclisti nasceva proprio lì, nel presente che avevamo percorso a stento. In quel ragazzo disabile che recitava in prima fila, nella chiesetta di San Rocco, il Pater noster.
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