Quanti mi hanno detto «ma che brutto Giro d’Italia», quanti mi hanno fatto sapere che per entusiasmarsi al ciclismo hanno bisogno di ben altro, quanti ancorché ciclofili abbastanza praticanti si sono votati, quasi per reazione, ai campionati europei di calcio, ai Giochi Olimpici di Atlanta.
Pare che il giro d’Italia non abbia speranze di sfondare psicologicamente, presso la cosiddetta massa, se ∂ non ha il grande italiano in gara, ∑ non vede e gode un acceso dualismo, ∏ non registra fasi cruente, o quanto meno momenti di fachirismo.
È una specie di condanna, che dal Giro si allarga a tutto il nostro ciclismo: mentre ci sono posti felici, su tutti la Francia, ma anche la Spagna, il Belgio e perché no gli Stati Uniti, dove il ciclismo fa parte del vissuto, dove la corsa è importante perché viene disputata, non per come viene disputata. Posti dove insomma il ciclismo ha una sua valenza che possiamo aggettivare in vari modi - letteraria, nazionalistica, sociale, culturale - ma che permette alla corsa in sé, o almeno alle corse più importanti, una validità assoluta, indipendentemente dalle vicende spicciole.
Il Tour, insomma, è grande a priori, e deludente non è mai: il solo fatto che si effettui, o meglio che si celebri, decreta già il suo successo. Il Giro no, il Giro deve crescere, gonfiarsi, deve vincere, affermarsi. La Francia ha bisogno del Tour e lo ringrazia già solo di esistere. L’Italia accetta il Giro soltanto se è bello, se le dà qualcosa. E l’handicap appare francamente insormontabile.
Pochi poi si sono accorti che ultimamente il Giro ha patito e subito un attacco grave alla sua nobiltà. In pratica, con le Olimpiadi open, i Giochi, che salvo rare eccezioni si disputano in agosto, si legano sempre più al Tour, e il Tour si lega sempre più ai Giochi ciclistici: per ingrandirsi a vicenda. Pensiamo che sarà sempre più difficile, a chi non ha disputato il Tour, diventare campione olimpico.
Intanto crescerà di importanza l’ultima parte della stagione, quella che comprende la Vuelta, il campionato del mondo e la chiusura della coppa del mondo, quest’anno e magari ogni anno in Giappone. La stessa coppa del mondo è tesa a togliere importanza alle grandi classiche, che sono quasi tutte in primavera, nel senso che inventa corse nuove e subito fatte importanti dalle sponsorizzazioni, e in posti che possono essere degli Eldorado, come il Giappone, il Nordamerica, l’Europa non canonica che si chiama Inghilterra, Portogallo, Scandinavia...
La stagione prima si divideva in due parti, grosso modo le corse di primavera più il Giro, poi il Tour più il campionato del mondo. Adesso si divide in tre parti: corse di primavera e Giro, Tour e Olimpiadi, Vuelta e Mondiale. Siamo certi che il Giro ci guadagni? Anzi, siamo certi che il Giro non ci perda?
Si parla tanto, anche per le vicende del Giro, di vento dell’Est. In effetti il ciclismo è lo sport che ha dato più palcoscenico, diciamo pure più lavoro, ai pedalatori dell’ex blocco sovietico. In Italia poi li abbiamo addirittura importati a mucchi, trattandoli benissimo, sempre, e offrendo loro le occasioni ideali per sciorinare il meglio del loro repertorio.
Bisogna chiedersi dov’erano, com’erano, cosa facevano prima quei corridori. Troppo facile dire che erano compressi nel dilettantismo, per loro di stato: potevano, questi sovietici, almeno dominare tra i dilettanti, e invece no, era così, c’era tanto spazio per gente della loro “zona”, specie i polacchi e i tedeschi orientali, e per noi, per i francesi, per i belgi, persino gli statunitensi e i canadesi.
Forse è proprio il ciclismo mercantile, quello del rapporto immediato fra prestazione e guadagno, a piacere degli ex sovietici. Una specie di adesione di uno sport a quello che capita nel mercato libero, arrivato anche da quelle parti: si dà da fare sul mercato più l’ex Unione Sovietica che l’ex Ddr, che l’ex (in senso di cambio di regime) Polonia, che l’ex Cecoslovacchia. Ma adesso basta, non ci piace parlare nè per dogmi, nè per supposizioni. E poi l’idea del vento dell’Est è così forte, così poetica, così avvolgente da piacere di per se stessa, senza ulteriori orpelli. Una sola domanda: come definiremo l’eventuale avvento di forti ciclisti indiani, cinesi, giapponesi?
Una sera anzi poi una notte a Lugano, per una rievocazione di Coppi, filmato e teledibattito. Gino Bartali e Ettore Milano e Emilio Croci-Torti ai suoi tempi tipico gregario elvetico e Faustino Coppi e Guido Vergani, tutto bene, nel senso di tutto regolare, ognuno perfetto nel suo personaggio. Ma poi anche quel tipo dal naso lungo, dalla parlata italiana buffa, parodistica quasi, dalla vitalità pazzesca, dalla memoria nitidissima, dalla voglia matta di tirar tardi, ad un certo punto raggrumata nel gesto di prendere il microfono, al piano-bar del ristorante, e di mettersi a cantare «Vola colomba...». Ferdi Kubler, 77 incredibili anni, un Tour e un Mondiale, la fama di grande matto oltre che di gran corridore, la fama anche di contestatore di doping anfetaminico a manciate. E adesso uno stupendo signore appena un po’ anziano, vitalissimo, lucidissimo. Da dire che, se quelli sono gli effetti di certi prodotti, i bimbi devono prenderli con il latte. Fra l’altro «Vola colomba...» è canzone ideale da cantare in tanti, tutti in coro.
Gian Paolo Ormezzano, 60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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