Rapporti&Relazioni
Il moderno e il romantico
di Gian Paolo Ormezzano

Forse li ho già presentati, intendo dire su queste colonne, e comunque repetita juve, considerando la juventinità originale di quei due e la loro insistenza nel mantenerla. Sto dicendo anzi scrivendo dei due fratelli gemelli Damilano, Maurizio il marciatore esimio e Giorgio il marciatore mica male. Li ho colpevolmente scoperti soltanto a Mosca 1980, abbracciati sul campo dopo la prova olimpica sui 20 chilometri che Maurizio aveva vinto e che Giorgio aveva concluso all’undicesimo posto, li ho trovati in giro per tanta atletica negli anni a seguire, con nascita fra di noi di un buon sodalizio, li ho avuti vicicni nelle mie poche tappe dell’ultimo Giro d’Italia.I due ex atleti potevano finalmente dedicarsi, dando una mano all’amico e come loro ex atleta e cuneese dalla nascita ed a vita Franco Arese, alla conduzione della nuova squadra, la Asics di Zaina e (non al Giro) di Chiappucci, ergo allo sport che più amano, dopo la marcia e spesso accanto alla marcia, cioé il mio caro ciclismo.

Ecco, spesso noi giornalisti sportivi abbiamo la chiara sensazione di avere rubato il pane, ed anche il caviale, ed anche tutti i contorni: perché ci imbattiamo in personaggi che sanno molto di più di noi dello sport su cui pure noi pontifichiamo, e ci rendiamo conto che quelli lì, se soltanto avessero voglia e modo di scrivere, ci metterebbero sotto facilmente. Persone insomma che dobbiamo ringraziare perché hanno fatto altro nella vita, se facevano il mestiere di giornalista sportivo sfondavano, ed erano posti di lavoro in meno, fra questi magari il nostro. Per fare un esempio, secondo me il più grande giornalista sportivo italiano teorico, potenziale, è stato Stefano Jacomuzzi, autore di una meravigliosa traduzione per la Utet, intitolata appunto «Lo Sport», tre favolosi volumi, autore per Einaudi di una grande storia delle Olimpiadi, autore di un romanzo sulla boxe delizioso e forte insieme, «Un vento sottile», capace di produrre molto bene e in poco tempo, formidabile di memoria e di attualizzazioni della memoria. È morto ancor giovane dopo essere stato «soltanto» professore di italiano, docente universitario e critico letterario. Io, da giornalista e da amico, l’ho spesso ringraziato di avere fatto altro.

I due Damilano sanno di ciclismo molto più di me, e da come parlano possono raccontare ciclismo molto meglio di me, basta che si mettano al registratore e diventano giornalisti. Ad Atene, durante i campionati mondiali di atletica leggera, dove Annarita Sidoti ha vinto i 10 chilometri iridati di marcia anche per loro due, oltre che per Sandro, terzo fratello e allenatore, ci è arrivata la notizia di Ullrich che, dopo aver vinto il Tour, rinunciava alla terza parte della stagione, per stress, slombatezza, chissà cosa d’altro. Premesso che loro lo farebbero molto meglio, ecco come i due Damilano mi hanno sintetizzato la situazione del ciclismo alla luce appunto della rinuncia sospetta di Jan Ullrich.Ci sono ormai due tipi di ciclismo, quello romantico e quello moderno, quello vecchio, se vogliamo, e quello nuovo. I due ciclismi convivono con fra di essi sfrigolii, stridori, problemi.Provano anche a convivere nello stesso personaggio, ma è difficile.

Il nuovo ciclismo, che si fa bello di essere come i più moderni sport dello sport moderno, non solo deve accettare un caso come quello di Ullrich, macchina da traguardi programmati e stagionali, per stare in sintonia con il resto del mondo e con il suo divenire. Il tedesco Ullrich che programma, si programma, si fa e si disfa, non solo è da applaudire, ma è da ringraziare, perché necessario. Ullrich è il trait d’union del ciclismo con i tempi, è la modernizzazione del ciclismo, è la sua attualizzazione e dunque la sua attualità, a costo di pagare in deromanticizzazione.
A fianco di Ullrich, e ogni tanto contro Ullrich, c’è l’altro ciclista, che rappresenta appunto l’altro ciclismo. Quello che ancora parla il dialetto, che vive al paese, che sogna una vittoria di tappa al Giro, per non dire addirittura al Tour, come il massimo della vita, che suda sudore antico, non moderno sudore regolato da chiuse e dighe di un corpo perfetto. È il ciclista che impreca, che puzza, che gode e distribuisce felicità ruspante, entusiasmo croccante, roba insomma di altri tempi. È il ciclismo dei marciatori, che lo capiscono meglio di ogni altro sport e meglio di quanto possa capirlo chiunque di qualsiasi altro sport. È il ciclismo fratello, anzi già che ci siamo con i Damilano diciamo pure fratello gemello, di ogni altro sport della fatica, della semplicità, della felicità tutto sommato a buon mercato, anche della poesia, e magari - lasciateci «bestemmiare» un pochino - dell’improvvisazione.

Sentendo Maurizio e Giorgio pensiamo, crediamo, speriamo che questo ciclismo esista sempre. Ad Atene bastava fare due passi avanti, indietro, a destra, a sinistra per trovare uno sport alla Ullrich, tanto per chiarire (o per confondere).Poi però, in un lampo d’occhi di un africano felice e ansimante, in una tenera fatica di un’italiana e magari un’italiana della marcia, una del clan dei Damilano, trovavamo il nostro caro vecchio ciclista che non morirà mai, anche se ogni tanto vive male e fa vivere male quelli che non sanno fare a meno di lui.

Gian Paolo Ormezzano, 61 anni, torinese-torinista,
articolista di “Tuttosport”
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