L'ORA DEL PASTO. Martini, l'unico

PROFESSIONISTI | 19/09/2016 | 08:39
Giro della Toscana: domani e dopo. Coppa Sabatini: giovedì. Il Trofeo Martini. Alfredo Martini. Lui.
E’ morto due anni fa, già due anni fa. Era il 25 agosto 2014. Fino a pochi mesi prima sembrava destinato all’eternità, come se fosse stato dispensato dal calendario, come se gli fosse stata regalata la formula non per sconfiggere il tempo – il solo immaginarlo sarebbe stato un imperdonabile atto di presunzione – ma di accompagnarlo, come se fosse stato scelto proprio lui per conservare la memoria e illuminare l’immaginazione, per testimoniare le lezioni del passato e trasformarle in comandamenti per il futuro. E fra passato e futuro, lui era il presente continuo, con il miracolo di resuscitare Gerbi e Ganna e farli correre in gruppo con Moser e Saronni, fino a Nibali e Aru.

Gli ultimi mesi, tra cadute e malattie, hanno insinuato a noi il dubbio della sua mortalità e a lui la certezza che il suo cammino – a piedi, a pedali, a parole, a pensieri, ad albe e tramonti, a traiettorie e orizzonti – fosse finalmente terminato. Sembrava avere perduto improvvisamente quella curiosità, quella speranza, quella voglia che da sempre lo animavano e fortificavano. E il fuoco – il rosso è sempre stato il suo colore, anche fra maglie azzurre, tricolori e iridate - si è consumato e ridotto a fiammella, fino a spegnersi. E da quel 25 agosto più lunghe e più buie sono diventate le notti.

Alfredo Martini aveva il dono della eleganza nella semplicità, il tesoro della leggerezza nella profondità, la misura del trionfo nella modestia. Era un uomo del popolo, e questo chiunque lo sentiva, lo vedeva, lo apprezzava. Frequentava saloni e salotti con la stessa naturalezza con cui abitava la strada. Entrava nelle chiese di Dio con la stessa onestà e pulizia con cui si sedeva in una casa del popolo. Si tratteneva ad ascoltare e a discutere con un barbiere o un macellaio con la stessa attenzione e rispetto che riservava a un presidente o a un professore. Intuiva il valore anche quando era nascosto da un grembiule domestico o mimetizzato da una tuta operaia. Sapeva quanta polvere ci può essere in un paio di sandali, quanto è bello aspettare i corridori seduto su un paracarro, quanta poesia si gusti in due uova al tegamino così come in una pedalata rotonda.

Martini possedeva l’arte del racconto, e il popolo del ciclismo lo sapeva e la aspettava, a tal punto che, un attimo prima che Alfredo prendesse la parola lasciandosi guidare dall’atmosfera, dall’ambiente, dai sentimenti, annusando e improvvisando, il silenzio calava trasformando modeste stanze in solenni palcoscenici, misere canoniche in splendide basiliche, povere corse in campionati del mondo. E in questa arte Martini non aveva, e non avrà, rivali. Neppure i suoi Bartali e Coppi visti da gregario, neppure Magni vissuto da amico.

Marco Pastonesi
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