Il Ciclismo culturale di Matt Rendell

STORIA | 19/05/2016 | 07:48
Si districa fra il realismo magico di Gabriel Garcia Marquez e la contemplazione manzoniana dell’amore eterno. Divagando tra Dostoevskij e le teorie del suo Raskolnikov. “Perché ho iniziato a studiare il ciclismo come fenomeno culturale”. Matt Rendell parla un italiano accademico, senza tradire il natio accento inglese. “Una volta avrei detto di Liverpool”, spiega lui. “L’inglese con quell’accento particolare, parlato dalla mia famiglia. Io sono cresciuto nel sud, vicino a Londra, con quell’accento. E da piccolo era come se vivessi da straniero in patria. Come un napoletano a Torino, per intenderci. Forse la mia passione per le lingue è nata proprio lì”.

Tanto che oggi Rendell si diverte nel far da interprete alle conferenze stampa del Giro d’Italia, captando sfumature e sottigliezze linguistiche, incisi e parentesi verbali che si premura di tradurre simultaneamente in inglese. “Sì, il Giro per me è innanzitutto un divertimento”, conferma lui, che negli anni Ottanta frequentò la scuola di interpreti di Trieste, in un ambiente che non esita a definire “di livello straordinario. Per me fu una sfida, vissuta accanto a un direttore geniale, David Snelling. Un inglese. Anzi, un britannico”, si corregge Rendell. Che non fa sconti alla precisione neanche a se stesso. “Era capace di aprire la Divina Commedia o l’intera opera di Shakespeare, di farsi leggere una frase a caso e di continuare a memoria. Un uomo in grado di parlare nove lingue, esperto di lirica verdiana e contesti romanici. Sono cresciuto all’ombra di gente come lui, tra dizionari tecnici, sentendomi piccolo come una zanzara”. E così oggi Rendell si diletta tra interpretariato consecutivo, affina capacità di traduzione simultanea. Assorbendo le conoscenze materne di tachigrafia.

Arriva per la prima volta la Giro nel 2000, da giornalista per Outdoor life network. Primo media americano ad interessarsi di Giro. Ci tornerà altre quattro volte, anche come inviato di The Observer. E quest’anno, davanti alla torta con le sue cinquanta candeline, regala alla carovana la sua professionalità. Destreggiandosi in un caleidoscopico ambiente con persone di 34 nazionalità differenti. “Il Giro è un romanzo. E non puoi raccontarlo allo stesso modo a un colombiano o a un francese”. Ognuno ha le proprie sensibilità. E cultura, per l’appunto. “Ho girato un film a Sogamoso, in Colombia, su Chepe Gonzales”. Nel paesino dell’Alto Chicamocha “c’è un santuario, che i ciclisti raggiungono in allenamento, in una sorta di pellegrinaggio”. Con un’interpretazione della preparazione atletica verso la salita al tempio sacro che per un inglese, ad esempio, avrà sfumature “meno mistiche e più oggettive o scientifiche. E che come tali vanno raccontate”.

Stefano Arosio
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