GIRO D'ITALIA | 05/05/2016 | 11:47 E’ messa cantata e sagra della tinca. E’ Woodstock e festa patronale. E’ reality e fiction. Ci sono altolocati e scamiciati, timidi e sfacciati, istrioni e comparse, sporchi e puliti. Musici, acrobati, ballerine, pagliacci e buffoni. Non manca veramente nulla nello stralunato happening di maggio, ultimo momento autenticamente pop del costume italiano. Sport, spettacolo, cultura. Villaggi e borghi antichi. Mare e montagna, vallate e pianure. E’ il più completo e attendibile reportage che si possa stilare, avendo occhi per vedere. E animo per gustare. Un viaggio nell’Italia più defilata, non per questo meno forte e meno viva. L’Italia lontana dai luoghi comuni, geografici e parolai. Il Giro va a trovarla e a seminare la sua atmosfera singolare, un po’ mondana e un po’ naif. Tra i tanti omaggi delle grandi firme, segnalerei un Montanelli: “Il Giro ha uno strano potere: trasforma in domenica ogni giorno della settimana”. E’ sempre così, è ancora così. Dev’essere per questo che tutti buttano un occhio al Giro. Alla tivù e anche giù in strada, se la baraonda passa sottocasa. Occhio attento quello dei tifosi. Occhio distratto quello delle zie che stirano e dei nipoti sui libri per la maturità. Un occhio lo buttano maestrine e scolari dai cortili delle scuole, suore e curati dai sagrati, maestranze e dirigenti dai cancelli delle fabbriche, sindaci e messi comunali dalle finestre dei municipi. Poi ci sono le moltitudini dell’esodo rosa, i militanti che portano tende e camper sulle vette più lontane, alpini e associazioni, atleti fai-da-te e signore con personal trainer, tutti al bivacco in attesa del passaggio, tra brindisi e grigliate, gemellaggi e striscioni, cori e ciucche strong. C’è chi all’arrivo dei campioni dorme schiantato in mezzo al prato, tra le vacche ignare che ci capiscono sempre meno… Sì, sopravvivono mille motivi per dare un’occhiata al Giro. Ma dovendo dire il più motivo di tutti, sceglierei il più antico, imperturbabile agli assalti del tempo e delle mode. Nella pista del grande circo, là in mezzo, ci sono sempre loro, i dannati della bicicletta che sgomentano con il loro tormento. Nelle giornate fiacche si scorticano e si fratturano in atroci cadute. Nelle giornate decisive si svegliano alle sei, magari per un improvviso prelievo antidoping, buttano giù quintali di pasta, vanno al massaggio, si concedono ai bagni di folla, poi partono per duecento chilometri, sei ore di corsa, cinque montagne da scalare, caldo torrido in pianura e zero gradi lassù al passo. Arrivano sfiniti, cinquanta chilometri di trasferimento, ancora massaggi, qualche punto di sutura, cena alle nove, una telefonata a casa, quindi a letto per un riposo che conta quanto un allenamento. La mattina dopo, sveglia alle sei, quintali di pasta, ore di bici, colli da scalare, caldo in pianura, bufera sui passi… Non c’è altro da dire. Il vero motivo per guardarli ha molto a che fare con la pietà umana: per quante colpe abbiano accumulato negli anni, i ciclisti restano una razza negletta che espia comunque tutto, ogni giorno, fino all’ultimo.
da Il Corriere della Sera del 5 maggio 2016 a firma Cristiano Gatti
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