JESOLO 88, UNA DOMENICA CON GIMONDI. GALLERY

INIZIATIVE | 15/03/2016 | 07:21
L’alba di Jesolo, alle 6 di una domenica mattina, può anche riempire cuore e muscoli di entusiasmo. Ma 275 chilometri, metro più o metro meno, sono comunque troppi per parlare di passeggiata. Ecco perché i 30 temerari che dall’Adriatico hanno raggiunto la Bergamasca, del cicloturismo possono definirsi paladini. Paladina, del resto, era la meta di questo viaggio tra bici e pullman, rigorosamente al seguito per arrivare entro il tempo massimo. Quello fissato per le 13.30 da Felice Gimondi, pronto ad accoglierli davanti al suo castello, per l’appunto. Foto di gruppo, consegna di qualche regalo e via dritti a far riposare le gambe sotto a un tavolo.

Così, Maurizio Pivetta e il suo gruppo di amatori della Jesolo 88 hanno deciso di trascorrere la penultima domenica di inverno. Omaggiando l’ex Salvarani e Bianchi come già, negli scorsi due anni, avevano fatto con Ercole Baldini a Villanova di Forlì e Francesco Moser lo scorso anno. In quell’occasione, l’iridato di San Cristobal del ’77, si era persino spinto 60 chilometri al di là dei suoi filari, per pedalare incontro al gruppo in arrivo. “Quest’anno abbiamo percorso quasi 150 chilometri in sella, partendo da Iseo”, spiega il presidente Pivetta. “La tabella di marcia prevedeva l’arrivo davanti a casa Gimondi, il pranzo a Petosino e poi la visita guidata con Gimondi al museo Tino Sana di Almenno San Bartolomeo”. Un programma troppo denso per permettersi che qualcosa andasse storto. “Ed è per questo che la spedizione in bici un po’ mi preoccupava”, scherza Pivetta. “Non per niente ci hanno seguito due scorte tecniche con ruote di ricambio e tutto l’occorrente…”.

Ma Pivetta, di margine al caso, ne lascia ben poco. Del resto la capacità organizzativa l’ha affinata con un’altra grande iniziativa, la ‘Pedalata con il campione’, escursioni cicloturistiche che negli anni hanno coinvolto Filippo Pozzato, Ivan Basso e Gianni Bugno, oltre che naturalmente decine e decine di cicloamatori. Numeri sempre in crescita, come gli stessi affiliati alla Jesolo 88, già forte di oltre 100 tesserati. Numeri che accompagnano anche altri progetti ambiziosi, come quello di un velodromo da 6500 posti nella cittadina veneziana.

“Ma l’esperienza con Gimondi è stata fantastica”, continua Pivetta. Arricchita anche dall’allegria di Dino Zandegù che non risparmia acuti cantando “Felicin Gimondi, quando attacchi sfondi…”.
Lui, Gimondi, ripaga la  dimostrazione di affetto snocciolando ricordi e aneddoti che rifocillano i cicloturisti veneti: “Indubbiamente è stata un’iniziativa simpatica, anche se io sono uno che non ama la pubblicità. Quel che dovevo fare, l’ho fatto prima, in bicicletta. Il mio mestiere era quello di vincere le corse”.

Eppure nel Museo del falegname di Tino Sana, anche Gimondi si scioglie. Davanti a lui ci sono i ricordi di una vita: biciclette, trofei e gigantografie. Nella terra d’Arlecchino, le pareti sono colorate dalle maglie di Faema, Molteni, Mercatone Uno, Salvarani, Bianchi e Us Sedrinese. Cimeli delle Olimpiadi di Tokyo del 1964, del Tour de l’Avenir, della Sanremo, della Sei giorni milanese o della seconda tappa del Giro della Provincia di Como del 1960, da cui tutto è iniziato. E poi le bici di Stefano Garzelli, Jan Ullirch e, ovviamente, Marco Pantani e Eddy Merckx.

“In bici Eddy era un’aquila”, sorride maliziosamente Gimondi. “Eravamo rivali su strada, ma amici. Ricordo una tappa con lo strappo a Dentecane, per andare a Benevento, in cui Eddy investì e uccise un cane che gli attraversò la strada. Io e Roger De Vlaeminck ne approfittammo e vestii la maglia rosa. Ma poi alla sera ci si trovava, io e Eddy, in camera in albergo, per bere whiskey e coca cola”.

Di classifiche, Gimondi preferisce non farne. “Non saprei dire quali siano le biciclette a cui tengo di più, tra quelle esposte. Ma al posto che tenerle in garage, sono contento che restino qui, dove le scolaresche possono vederle. Però per quella bici del Tour ho di certo un affetto particolare. La mia vittoria più bella? Tutte le vittorie sono belle”, continua Gimondi. Zandegù, lì accanto, aggiunge: “Si ma quella di Roubaix…”.

Gimondi spolvera ricordi che non hanno mai smesso di luccicare. “Ero cattivo in corsa, qualche corridore l’ho buttato giù”, “Moreno Argentin andava in acido lattico per un’ora e mezza, i corridori normali solo 20 minuti oltre la soglia. Un ragazzo intelligente, ma non ho mai capito come abbia fatto a perdere quella Sanremo…”, “Ero postino supplente di mia mamma, ma dopo la vittoria del Tour ho dovuto rinunciare”, “Ero in trattativa con la Bic, firmai con la Bianchi. Pretesi i soldi di Basso, 32 milioni. Non ho mai firmato un contratto, ma i soldi mi sono arrivati”, “Un giorno mi si avvicina un signore, mi tocca sulla spalla e mi dice: ‘Bagaj, ti piacerebbe correre per la Bianchi?’. Era Pinella De Grandi. Il giorno dopo ero davanti ai cancelli della sede di viale Abruzzi ancora prima che aprissero”.

“Ma non racconta la più bella”, strizza l’occhio Zandegù. “Dopo la vittoria del Mondiale, siamo in albergo ad Arona. Chiediamo Barolo, Barbaresco e Champagne. Per forza, dico io. Abbiamo qui il campione del mondo! E chiedo ai camerieri di portarci il meglio. Arriva il conto e Felice mi dice: ‘Firma tu’. Il giorno dopo la Salvarani paga 350 euro di cibo, un milione di vino. La firma sulla ricevuta era la mia. E l’anno dovetti cambiare squadra…”.

Stefano Arosio
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