PROFESSIONISTI | 25/01/2016 | 08:10 Matteo Tosatto festeggia nel 2016 i vent’anni di carriera professionistica ma continua ad avere lo spirito di un ragazzino. Il Toso, che a maggio spegnerà 42 candeline, ci svela le sue ambizioni per questa stagione che lo vedrà al fianco del campione del mondo Peter Sagan, in cerca della definitiva consacrazione in una classica, e di Alberto Contador, che vuole rivestirsi di giallo. Per l’esperienza, Matteo è una garanzia per i suoi capitani e anche un riferimento in gruppo, quindi prima di partire per una nuova stagione ricca di appuntamenti, abbiamo colto l’occasione per parlare con lui di ciclismo a tutto tondo.
Come stai, Toso? «Bene. Dopo le fatiche del 2015 ho staccato per un mese, non mi sono concesso nessuna vacanza esotica, ma ne ho approfittato per stare con la famiglia e trascorrere qualche weekend con amici che non andavo a trovare da un po’. A metà novembre ho ripreso a pedalare con calma, con la squadra siamo stati alle Canarie fino al 19 dicembre. È sempre bello iniziare la preparazione con il bel tempo, non perdi neanche un giorno di allenamento, evitando il freddo e la nebbia che ci sono a casa. Dopo Natale, ho trascorso una settimana a Livigno a sciare, sempre in compagnia di mia moglie Elisa e della nostra piccola Emma, che ha 5 anni. Dopo le feste ho ripreso a lavorare a pieno regime».
Quali gare prevede il tuo programma? «Inizierò alla Volta ao Algarve in Portogallo a metà febbraio, poi disputerò la Parigi-Nizza e la Milano-Sanremo, quindi preparerò il Giro d’Italia per essere d’appoggio a Rafal Majka, magari passando tramite il Romandia e qualche classica, poi cercherò di recuperare le forze per disputare un buon finale di stagione e, se serve, come l’anno scorso magari presentarmi al via anche del Tour de France. Non si sa mai. L’importante è partire bene, mantenere il morale alto e una buona condizione».
Che stagione ti aspetti? «Personalmente mi andrebbe bene una annata che rispecchi le ultime disputate, voglio essere di supporto ai miei capitani, stare bene fisicamente ed essere competitivo. In tanti mi dicono che sono vecchio ma, al di la dell’età, per me ciò che conta è fare quello che ti chiedono. Un anno in più o in meno non cambia nulla: l’importante è avere voglia di correre, avere testa, farsi trovare pronti al momento giusto, a volte essere persino indispensabili come mi è successo in più occasioni».
Cosa può fare Contador? «L’anno scorso si era posto il grande obiettivo della doppietta Giro-Tour con un occhio di riguardo per il primo appuntamento, che ha saputo far nuovamente suo. Quest’anno non si è nascosto, punta tutto sulla Grande Boucle, come nel 2014 partirà con l’idea di essere protagonista e di vincere fin da subito quindi lo aspettiamo all’Algarve, alla Parigi-Nizza e al Giro dei Paesi Baschi, dopo di che staccherà per pensare al Tour. Sono sicuro che nel 2014, senza la famosa caduta, si sarebbe giocato fino all’ultimo la maglia gialla con Vincenzo (Nibali, ndr), ma il ciclismo è così, a volte la sfortuna ci mette lo zampino. Dopo il Tour, Alberto vuole provare a far bene alle Olimpiadi di Rio: per lui una medaglia olimpica sarebbe la ciliegina sulla torta di una carriera splendida. Alla fine del 2016 dovrebbe smettere, ma penso che la sua decisione dipenderà molto da come andrà la stagione. Quando corre, lui lo fa solo per vincere, si prepara sempre al top. Non diamo per scontato che appenderà la bici al chiodo, nella testa dei campioni è difficile entrare...».
E Sagan in maglia di campione del mondo? «Spero che riesca a farci vedere quello che è capace di fare, prendendo spunto dall’ultima corsa di prestigio disputata in cui ha conquistato la maglia iridata. Questo simbolo per molti comporta troppa pressione ma a lui non pesa, anzi sarà un motivo in più per dare ancora più spettacolo. Dopo Richmond, Peter non è cambiato di una virgola, lo vedo persino più tranquillo. Come tutti me lo aspetto protagonista alle classiche: già alla Sanremo sarà al via per vincere, stesso discorso vale per il Fiandre. Queste, a mio avviso, sono le due corse più adatte a lui».
Come vedi Basso nella nuova veste di tecnico? «Con l’esperienza e la voglia di imparare che lo contraddistinguono, Ivan sta iniziando a svolgere un mestiere nuovo con grande professionalità. Penso che saprà far bene soprattutto con i giovani che devono apprendere come allenarsi e muoversi nella massima categoria, con i suoi consigli può essere un jolly preziosissimo in squadra, si trova al posto giusto al momento giusto e sono certo che sarà molto utile al team. Dopo quello che ha passato, ha fatto la scelta giusta, è stato un grande corridore e ha capito quando era il momento di scendere dalla bici».
E a te, a 41 anni, chi te lo fa fare di pedalare ancora? «La questione è che a me piace ancora da matti questo lavoro e i sacrifici che comporta non mi pesano. Tanti colleghi dicono fin dall’inizio che arrivati a tot anni smetteranno, io non mi sono mai fatto un discorso del genere. Posso arrivare al Giro e mollare perché non ho più voglia di allenarmi così come continuare un altro anno ancora, non mi sono prefissato alcun limite. Sicuramente arriverà la mattina che mi sveglierò e dirò stop, ma per ora mi alleno, prendo vento in faccia, sopporto la lontananza da casa e sono competitivo. Quando non sarà più così, smetterò senza rimpianti, bisogna essere onesti con se stessi. Per il futuro mi piacerebbe rimanere nel ciclismo, non da direttore sportivo ma ricoprendo comunque un ruolo importante per il movimento. Quando smetterò aprirò gli occhi, valuterò le possibilità e sperimenterò finchè non troverò un’altra strada che mi appaghi tanto quanto l’attuale. Il ciclismo mi ha dato tanto e altrettanto credo di avergli dato io indossando varie maglie di club e quella della nazionale. La bicicletta è la mia vita da oltre trent’anni, sarà difficile se non impossibile staccarmici».
Sei tra i più esperti in gruppo: come è cambiato il ciclismo nel corso della tua carriera? «Tantissimo. Se ripenso al mio primo anno da prof, nel ’97, la prima considerazione che mi viene da fare è che una volta c’erano più amici in gruppo. Oggi con tanti colleghi non vai oltre al saluto, ho notato che mi fermo a parlare veramente solo con i compagni storici, quelli che erano già in gruppo alla fine degli anni Novanta. Nel nostro ambiente ormai è tutto troppo esagerato ed esasperato, c’è poco tempo anche per scambiare una semplice battuta. Una volta si creava più gruppo, dopo cena i venti minuti di “divano” non ce li toglieva nessuno, ora capita raramente e solo in corse minori, quando magari ci si trova in pochi italiani e senza pressioni, di stare a parlare con calma nella hall dell’hotel. Nelle grandi corse dopo mangiato tutti corrono in camera per stare davanti al pc o telefonare a casa, manca il rapporto umano che c’era una volta, soprattutto tra avversari. Prima riuscivamo a instaurare legami più forti, eravamo più uniti, c’era più conoscenza e rispetto, per questo potevamo anche farci valere di più, ora come ora manca proprio l’abitudine a stare insieme. Un altro esempio? Anni fa al Giro, al Tour e alla Vuelta si andava tutti al villaggio mezz’ora prima della partenza per leggere il giornale, prendere un caffè e scambiare due parole, ora invece si scende dal bus giusto per firmare e via in corsa».
Il rapporto tra giovani e uomini d’esperienza è mutato? «Decisamente, prima c’era più rispetto. Oggi ci sono giovani che ti guardano e ascoltano curiosi di sapere e di imparare, ma la maggior parte pensano di essere già arrivati solo perché sono professionisti, quando invece è proprio vero che non si smette mai di imparare. Negli ultimi anni ho visto che i ragazzi che hanno testa, spesso sono anche quelli che hanno gambe. Penso ad Aru che ho avuto modo di conoscere meglio alla Vuelta 2014 vinta da Alberto, lo vedi da come ti guarda quando gli parli che è uno che si rende conto che ha qualcosa da imparare da chi è più grande di lui, anche se ha già conquistato grandi risultati; un altro che ha il piacere di ascoltare è Nibali, passato con me in Fassa Bortolo e, tra gli altri, il mio compagno di camera e allenamento Boaro, che non si vergogna di pormi domande o chiedermi un consiglio. A me fa piacere mettere a disposizione la mia esperienza e a loro serve: avere a che fare con i giovani è stimolante, sono il futuro del ciclismo, con loro forse è più difficile lavorare perché devi saperti imporre ed essere credibile, ma insegnare quanto ho imparato in una carriera è una bella sfida».
Il ciclismo, soprattutto di casa nostra, non sta passando un grande periodo. «È innegabile, anche quest’anno abbiamo visto tanti ragazzi restare a piedi. Il problema è che una volta avevamo 8/10 squadre di serie A in Italia mentre oggi ne abbiamo una sola più quattro Professional e alcune Continental. Ci mancano i team e gli sponsor, basterebbe avere 2 o 3 formazioni in più per far crescere i giovani, se ne perderebbero meno per strada. Dispiace constatare la difficoltà in cui si trova il nostro movimento, soprattutto pensando che siamo stati noi italiani ad insegnare agli altri come si fa ciclismo, ma spero che la situazione economica migliori e i nostri industriali capiscano che grande ritorno di immagine può offrire il nostro sport».
Ripercorrendo la tua carriera, quali sono i primi ricordi che ti vengono in mente? «Ci sono stati tanti momenti chiave. Iniziamo dal passaggio nella massima categoria grazie a Giancarlo Ferretti alla MG Technogym, che al primo anno mi ha schierato subito al Tour. In quelle tre settimane feci davvero una fatica boia ma ho imparato tantissimo. Penso poi a quando sono passato in Fassa Bortolo e c’era Petacchi che nel giro di due anni è diventato il miglior velocista al mondo e io, con lui, ho imparato a tirare le volate. A seguire, alla Quick Step ho trovato Tom Boonen e al suo fianco ho corso tante classiche. Nel 2011 quindi sono arrivato da Bjarne (Riis, ndr) e al termine della prima corsa che ho disputato con Contador, ricordo Alberto dirmi “mi piace come corri, ti voglio nel mio gruppo”. Ci sono stati numerosi momenti importanti che hanno segnato la mia carriera. Sono orgoglioso di quanto fatto finora perché non mi ha regalato niente nessuno. A costo di sembrare presuntuoso, mi sono sempre conquistato tutto da solo, facendomi trovare pronto alle gare e all’altezza della situazione».
Come ti immagini in futuro? «Con qualche anno in più ma con la mentalità da ragazzino che ho oggi, quindi un uomo che pensa sempre positivo e con la voglia di fare che mi ha sempre contraddistinto. Un po’ invecchiato, magari con un filo di pancia e certamente più rilassato. Alle gare, anche se hai 42 anni e sai cosa fare, c’è sempre un po’ di tensione per arrivare al top in occasione degli impegni messi a calendario. Quando smetterò di correre, vorrei emergere con un altro lavoro ma è presto per pensarci. Verrà tutto naturale, quando si appende la bici al chiodo inizia una altra vita e noi corridori che abbiamo alle spalle una carriera lunga facciamo meno fatica a smettere, siamo abituati ad affrontare le battaglie che caratterizzano la vita lavorativa».
Un traguardo da raggiungere prima di appendere la bici al chiodo? «Vincere una corsa. Ne ho vinte di belle in prima persona (nel suo palmares spiccano una vittoria di tappa al Giro 2001 e una al Tour 2006, ndr), voglio continuare ad essere fondamentale per le vittorie dei miei capitani, come accaduto lo scorso anno al Giro quando a pochi chilometri dal traguardo di Jesolo ho dato la mia bici ad Alberto quando è caduto: se non fossi stato sveglio a passargliela, avrebbe perso tempo prezioso e forse il Giro stesso. Sono stato lucido e non abbiamo commesso un errore come quello di cui è stato protagonista giorni prima Richie Porte... Indicando degli obiettivi precisi diciamo che vorrei centrare almeno uno di questi tre: la Sanremo con Peter, il Giro con Rafal o il Tour con Alberto».
Un'enormità, una cosa che non si può sostenere se non si è Uomini e Atleti VERI.
Immenso Matteo...
Bartoli64
COME POCHI ALTRI
25 gennaio 2016 13:54FORCING
UNA CARRIERA INVIDIABILE , COME POCHI ALTRI ,SEMPRE A TESTA ALTA AL CONTRARIO DI TANTI, UN VERO ATLETA, UN ESEMPIO PER I GIOVANI. IN BOCCA AL LUPO PER LA STAGIONE CHE STA INIZIANDO.
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