LEMOND. «Il ciclismo è casa mia»

PROFESSIONISTI | 30/03/2015 | 07:26
Lo sguardo è quello di un uo­mo sereno, che è tornato ad essere in pace con se stesso dopo un periodo buio, che gli ha tormentato l’anima. Il lavoro nobilita l’uomo e se il proprio lavoro è nel ciclismo, allora la tua soddisfazione è doppia. Eurosport, l’anno scorso, ha avuto una felicissima intuizione: inserire Greg Lemond, tre volte vincitore del Tour (1986, 1989 e 1990) e per due volte campione del mondo (1983 e 1989), nel­la propria squadra come opinionista tecnico. Ne ha guadagnato Eu­rosport, ma anche Lemond che sta vi­vendo una nuova giovinezza. «Non ve lo nascondo, è la pura verità: Euro­sport mi ha strappato alla pensione…», dice l’americano con la sua contagiosa ironia.
Oggi Greg è un omone piuttosto in so­vrappeso: mani grosse e giacca che fatica a restare chiusa. Gli occhi sono quel­li che abbiamo imparato a conoscere al Tour de France sul finire degli anni Ottanta: azzurri e svelti come po­chi. Occhi che sprizzano intelligenza, ma che possono anche incutere rispetto. Occhi che ad un certo punto si era­no velati di malinconia…
«Ne parlai anche con Marco (Pantani, ndr): che bella persona, che bel corridore. Era un ragazzo d’oro, un ta­lento purissimo e di una sensibilità rara. Ri­cordo che ci incontrammo alla presentazione del Tour un paio di anni prima che lui morisse: parlammo del male oscuro, del ma­le di vivere, della de­pres­sione che ti può colpire quando meno te lo aspetti e parlammo anche di come combatterla».

Parla con grande r­ispetto di Pantani. Di Lance Armstrong, in­ve­ce, preferirebbe non parlarne…

«È una brutta persona, che non si è li­mitata a fare ricorso al doping, ma ha agito da bandito all’interno del gruppo, appoggiato dalle istituzioni. Se non ci fosse stata la giustizia ordinaria, lui non avrebbe mai pagato. A livello sportivo era una divinità intoccabile, che si sentiva onnipotente. La sua confessione in tv, quando si è fatto intervistare da Oprah Winfrey, non l’ho neppure vista. In quel periodo ero disgustato, in casa mia non volevo che si toccasse l’argomento, mi faceva rabbia».

È bene ricordare che Lemond, oggi un signore distinto di 54 anni, sposato con Kathy, è stato tra i primi ad accusare di doping il texano. E per questo è stato anche minacciato e ricattato: gli dissero che avrebbero reso nota quella vecchia storia di abusi sessuali sofferti da bambino. Greg non si perse d’animo, non si spaventò: fu lui stesso a raccontare quella triste pagina della sua infanzia, dopodiché proseguì la sua battaglia contro Armstrong.
«Io credo che il ciclismo si sia purificato e anche di molto. È cambiato parecchio. Tantissimo. Ci saranno sempre i bari, questo è logico, ma oggi è uno de­gli sport più credibili, per questo uno dei più belli».

È un Lemond consapevole della sua storia, fatta di gioie e dolori.
«Quando mio cognato, inavvertitamente, mi impallinò in una battuta di caccia, pensai di aver chiuso con il ciclismo. Invece tornai più forte di prima e vinsi per la terza volta il Tour».

E allora, dal tris al Tour, passiamo a parlare di Nibali, che quest’anno insegue il bis consecutivo alla Grande Bou­cle, cosa che nella storia del ciclismo è riuscita a pochissimi: Lemond è tra questi.

«Ce la può fare, Vincenzo è un grandissimo atleta nel pieno della maturità psico-fisica. Nella tappa del pavé, l’anno scorso, mi ha impressionato per la sua forza e la grande abilità nella guida del mezzo. Però ripetersi non è mai facile. Bisogna avere grande concentrazione. Lui è nell’età mi­gliore, ma deve stare attento a non farsi distrarre troppo dalla tivù e dai viaggi d’affari».

Sa che non correrà il Giro?

«Certo che lo so e ne capisco anche le ragioni. Per quanto mi riguarda, io ho corso spesso il Giro come preparazione ottimale per il Tour (nel 1986 però, anche a causa di un incidente, arrivò quarto nella generale a 2’26” dalla ma­glia rosa Roberto Visentini, dietro Sa­ronni e Moser, ndr), ma Vincenzo il Gi­ro l’ha già vinto e se decidesse di correrlo sarebbe costretto a vincerlo: non avrebbe altre alternative. Meglio concentrarsi sul Tour».

Ma a lei piacerebbe averlo in una sua squadra?
«A chi non piacerebbe avere corridori come Nibali o Contador? Ma se dovessi fare una squadra oggi, io punterei su Nairo Quintana. È giovane, coraggioso, scaltro e ha una storia che mi affascina. Lui sarà il terzo incomodo».

E del nostro Fabio Aru cosa dice?

«È bravo, ha coraggio, ma non è ancora al livello di questi, nemmeno di Nai­ro. Però se metabolizzerà bene il Giro e decideranno di fargli correre anche il Tour, Fabio per Nibali potrebbe essere l’arma in più. Aru deve ancora crescere, ma crescerà. Ha tutto per diventare un grande».

Qualche consiglio da dargli?

«Non deve trascurare la cronometro. Si deve applicare tanto, perché i grandi Giri non si vincono senza andare bene nelle prove contro il tempo. Ve lo dice uno che vinse un Tour nel 1989 per soli 8 secondi nell’ultima crono».

Lo sconfitto fu il povero Laurent Fi­gnon…

«Bravo ragazzo, bravissima persona. Era molto orgoglioso e ricordo che il giorno prima della grande conclusione sui Campi Elisi, alla vigilia della crono finale, venne da me molto compiaciuto e sicuro e mi disse: “Greg, complimenti per il tuo bellissimo secondo po­sto…”. Io gli risposi: “Laurent, ma io non arrivo secondo…”. Quella vittoria fu magica, di un’emozione irripetibile. Ricordo che pedalavo su una bici italiana, la Bot­tecchia. Ottavio Bottecchia, l’unico italiano ad avere vinto per due volte consecutive la Grande Bou­cle».

Verrà al Giro d’Italia?

«Intanto sono felice di essere tornato oggi (lo abbiamo incontrato a Milano, il 20 febbraio scorso, per una colazione di lavoro con il vice-direttore Stefano Bernabino in occasione della presentazione dei pa­linsesti della stagione) nel vostro pae­se. Era dal ’92 che non ci tornavo e devo dire che mi man­cavate tanto, so­prattutto la vostra pa­sta con il “pomidoro”. Forse al Giro ci vengo per provare il Colle delle Finestre, vediamo…».

Qual è stata la sua prima bicicletta?

«Una Cinelli gialla. Io in bici ci andavo per allenarmi in funzione dello sci, poi scoprii che era bello e che ero anche molto portato. La pri­ma maglia? Gialla, ma io non sapevo nemmeno co­sa significasse nel ciclismo una maglia di quel colore. Poi quando me lo han­no spie­gato, non l’ho più messa per la ver­gogna. Decisi di comprare quella Cinelli perché volevo partecipare ad una gara a Reno (in Ne­vada, ndr). La prima corsa da professionista? In Francia a Aix en Pro­vence nel 1981. Mi ricordo che quando sono tornato in albergo ho detto: “Oh mio Dio, ho cor­so accanto a Saronni”».

Torniamo all’oggi: le piace più Contador o Froome?

«Contador ha più classe. È un campione a tutto tondo. Secondo me, quest’anno, sarà lui l’uomo da battere».

Crede nel suo bis Giro-Tour?

«È tra i pochi, se non l’unico, che può sognare questo risultato. Dovrà avere anche fortuna: niente incidenti, malanni e cose di questo tipo. Tra Giro e Tour ci sono quattro settimane di stacco, lui ha l’esperienza e la testa per poter mantenere la condizione».

Ha saputo che Contador, alla fine del prossimo anno, vuole ritirarsi?
«Ho letto. Io smisi a 32 anni, ma gli ul­timi due sono stati per me un calvario. Io amavo il ciclismo, volevo andare avanti a tutti i costi, ci tenevo ma il fisico non mi supportava più. Diverso è il discorso di Contador. Oggi le preparazioni sono molto più scientifiche e se­condo me si può arrivare a correre ad alti livelli fino a 35 anni. Ma Alberto, pro­babilmente, vuole la­sciare da campione in auge. Nel pieno delle sue possibilità e la scelta è condivisibile».

Ci faccia un nome per il Tour?

«Alberto Contador. Poi Nibali e Froo­me. Atten­ti però a Quintana».

Come le sembra il lavoro svolto dal presidente dell’Uci, Brian Cookson?

«È ancora presto per dire se sta lavorando bene o ma­le. Come qualsiasi per­sona, va giudicata sul lungo termine. Per il momento ha fatto un lavoro straordinario alla British Cycling. E mi piace che lui stia trattando il do­ping in maniera separata dall’Uci, in maniera indipendente. Per questo plaudo al fatto che abbia agevolato la nascita del­la Commissione indipendente per il doping».

Le piace fare il commentatore Tv?
«Molto. Sono molto gratificato dal ruo­lo e lo svolgo con l’impegno e la passione che ho profuso per fare il ci­clista. Sì, mi piace fare l’opinionista tecnico per Eurosport, ma soprattutto mi piace stare nel ciclismo. Questa è la mia casa».

Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di marzo
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