Pantani doveva essere curato, invece l'hanno fatto correre

| 21/06/2006 | 00:00
Marco Pantani è morto perchè chi era vicino a lui ha preferito farlo correre in bicicletta anzichè curarlo. Marco era malato da tempo, forse da sempre, ma le priorità sono state altre. Lui era una macchina che produceva vittorie, soldi e sogni e tanto bastava. Non importa che uno staff medico di Reggio Emilia, nel 2002, avesse consigliato ai dirigenti della sua squadra di lasciar perdere con la bicicletta e pensare solo e soltanto ad un recupero fisico-mentale. Questo e tanto altro emerge dal libro scritto da Matt Rendell. «The death of Marco Pantani», la biografia inedita di uno dei più autorevoli e affermati giornalisti inglesi, già autore di reportage televisivi di successo per l’emittente Bbc e Channel 4 (insignito dalla National Sporting Club “the best new Sports Writer 2003”). Il suo libro, in uscita domani nelle migliori librerie di Inghilterra e Olanda, non mancherà di far discutere, riaprendo una delle pagine più dolorose e amare del ciclismo mondiale recente. Oggi, «Il Giornale» e «La Voce di Romagna», fanno parlare il giornalista inglese, anticipando parte del contenuto del suo lavoro. Noi vi proponiamo l'intervista integrale che Mario Puglisi ha fatto all'autore di questo libro e che è pubblicata su «La Voce di Romagna» di oggi. Mister Rendell, il suo libro descrive Pantani come una persona affetta da disturbi anti-sociali, deliri narcisistici ed ossessivi, in pratica una persona psicologicamente instabile: non le pare una teoria un po’ azzardata? «Purtroppo non lo è. Esiste una perizia psichiatrica redatta nel 2002 da un’equipe di medici di Reggio Emilia in cui si rileva che Pantani soffriva di patologie mentali facilmente diagnosticabili e, con ogni probabilità, presenti già nell’età adolescenziale. Sono disturbi che non hanno alcuna relazione con l’abuso di cocaina o lo stress da primato. Anche se Pantani avesse fatto l’idraulico come il babbo, per intenderci, quei problemi sarebbero emersi ugualmente. Certo, la sua carriera ha finito per peggiorare le cose, ma questo è un aspetto a cui nessuno ha voluto dare il dovuto peso...». Che intende dire? «In quella stessa perizia, vi è scritto, in maniera inequivocabile, che quei disturbi non erano assolutamente compatibili con le pressioni smodate di un’attività agonistica così intensa e che, per il bene del paziente, sarebbe stato opportuno che, almeno per un certo periodo, Pantani non avesse più corso in bicicletta. Insomma, Marco - affetto da patologie mentali degenerative - avrebbe dovuto seguire un percorso terapeutico riabilitativo, ma chi gli stava accanto, evidentemente, aveva altre priorità...». Nel suo libro lei dimostra, con una serie di documenti inediti, che Pantani faceva un uso sistematico di doping... «La mia non è un’opinione, bensì una deduzione logica che emerge in maniera assolutamente incontrovertibile dalla consultazione di una serie di referti medici che riguardano, in particolare, i valori di ematocrito riscontrati sul corpo di Pantani. Non servono le perizie di luminari della medicina sportiva, basta un’elementare comparazione di dati, per altro già resi pubblici durante il processo Conconi o relativi alle indagini sulla caduta alla Milano-Torino, per rendersi conto che Pantani facesse un uso sistematico di sostanze dopanti. Se lo vuole sapere, d’inedito in quel capitolo c’è ben poco, basta soltanto raffrontare certi valori, e la verità è servita». Instabile mentalmente, dopato e cocainomane: a questo punto la sua morte non dovrebbe sorprendere... «Vede, io credo che Pantani sia stato vittima di tre tipologie di spacciatori: quelli che gli vendevano le sostanze dopanti, quelli che gli vendevano la cocaina e, infine, quelli che gli vendevano illusioni. Per quanto i primi due abbiano fatto la loro parte, se proprio lo vuole sapere, io penso che a premere il grilletto sulla tempia di Marco siano stati proprio i venditori di sogni, gente che - con i loro discorsi deliranti - hanno contribuito a fargli perdere il senso della realtà, proiettandolo verso una dimensione illusoria, che è stata poi l’anticamera della sua fine». Dunque, secondo lei, Pantani si poteva salvare? «Di certo lui è una vittima, perchè nella nostra società esistono strutture mediche specialistiche che sono in grado di affrontare - e anche di risolvere - certe patologie della mente. Pantani aveva solo bisogno di cure. Il problema è che il doping scorreva non solo nelle sue vene, ma anche in quelle del sistema malato che gli stava attorno». Torniamo alla morte di Pantani: c’è chi è convinto che l’abuso di cocaina non sia stata la vera origine della fine di Marco. Il suo collega francese, Philippe Brunel, ad esempio, dopo l’estate pubblicherà un libro in cui, puntando l’indice sulle lacune di un’inchiesta a suo dire frammentaria ed approssimativa, viene privilegiata l’ipotesi dell’omicidio: cosa ne pensa? «Mi pare una follia e, francamente, anche un modo inetico per avvicinarsi al caso Pantani. Io sono profondamente convinto, dopo aver analizzato migliaia di pagine e verbali, che le forze dell’ordine italiane abbiano fatto in pieno il loro dovere, conducendo l’indagine secondo modalità impeccabili. La teoria di Brunel si fonda su supposizioni che non hanno riscontri plausibili nella realtà, mi auguro solo che il collega sia in buona fede». Esiste un filo sottile che divide un reportage giornalistico dalla denigrazione: non teme di aver tratteggiato un profilo di Pantani eccessivamente crudele? «Ho solo tentato di raccontare una verità che si fonda su elementi probatori certi, evitando quelle edulcorazioni che, alla fine, hanno portato Marco alla morte. Per scrivere questo libro, io ho venduto la mia casa a Londra, mia moglie ha lasciato il lavoro e, con infinita pazienza, mi ha accompagnato in Italia e in altre parti del mondo, alla ricerca di ogni indizio che riguardasse la storia umana e sportiva di questo campione. Ci sono frasi nel libro, anche di poche righe che, tra biglietti aerei, spostamenti vari ed hotel, sono costati - da soli - centinaia di euro. Per non parlare della mia stabilità emotiva: ho incubi ricorrenti durante la notte e sindromi ossessive dalle quali, temo, non sarà facile liberarmi. Tornando alla sua domanda, mi rendo conto che, nel mio libro, ci sono aspetti che possono far male, però io ho tanti amici nel mondo del ciclismo, ragazzi sposati e con figli. Questo libro è anche per loro, per dirgli con tutta la forza possibile: ragazzi, per vincere una corsa non fate come Pantani». Ma qual è la sua opinione personale su Marco dopo aver scritto questo libro? «Lui era semplicemente magico, quella magia che, in alcuni aspetti, rasenta anche la pazzia. Aveva eloquenza e carisma impareggiabili, stati d’animo complessi ma meravigliosi da raccontare, le debolezze di un uomo come tanti e quell’imprevedibilità tipica dei geni».
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