TUTTOBICI | 28/10/2013 | 08:53 Quando, anno 1959, cominciai a scrivere di ciclismo grande e grosso, da giornalistucolo arrivato in redazione direttamente dalle piscine dove gareggiavo in un nuoto povero, provai subito a ipotizzare un avvento degli atleti statunitensi, che allora strabiliavano nel mio sport e nell’atletica leggera, dentro al mondo della bicicletta. Chiesi per iscritto cosa mai avrebbe potuto fare uno di loro, uno forte come i più forti di loro, insomma un grande atleta, impegnato in uno sport che prediligeva, esaltava gli scorfani, i quali in sella diventavano dei anche di bellezza, massimo caso quello di Fausto Coppi mio idolo. Naturalmente gli esperti, ai quali devotamente persino credevo, mi dicevano che il ciclismo è sport a sé, che pedalare non è né correre né meno che mai nuotare. E che c’erano quelli col fisico da scalatore e quelli col fisico del passista e persino quelli col fisico da velocista. E poi nel ciclismo ci voleva il saper soffrire, come assolutamente era vietato ai vitaminizzati campioni del Nord America, e poi nel ciclismo c’era la tradizione, che ad un certo punto della corsa finiva per avere un suo peso, come se ti spingesse tutta una storia di genti, di popoli, e poi c’erano la pista e la strada, la tappa e la corsa di un giorno, il cronometro e l’arrampicata, la solitudine e il gruppo, la rava e la fava. Ci fu un Giro d’Italia in cui uno spagnolo specializzatissimo nello sprint, Miguel Poblet, vinse una tappa in salita, fra lo stupore degli esperti (réputés techniciens, specie eletta dei giornalisti suiveurs, tutto detto in francese allora lingua regina del ciclismo: e se lo lasciavano dire senza pensare che ci fosse un po’ di sfottò), scocciati fra l’altro da tanta irriverenza, vinse Poblet e io provai a dire e persino, timidamente, a scrivere che in fondo il ciclismo consisteva nel pedalare, e che se uno riusciva a dare quel certo numero di pedalate in quel certo spazio di tempo poteva andare forte in salita come in volata, in un velodromo come su una strada sterrata. Passai per iconoclasta, e siccome avevo altro di bello da fare, sempre nel giornalismo, non insistetti. Quando arrivò dagli Usa LeMond a vincere il Tour de France, e poi quando arrivò sempre dagli Usa Hampsten a vincere il Giro d’Italia, ero sempre occupato da problemi dello sport più vasti, più aulici. Mi ero persino scordato di far notare, in quei tanti anni, che Merckx, troppo alto per essere un grande scalatore, non si sarebbe mai dovuto permettere di vincere grandi corse a tappe: e infatti quando si presentò al suo secondo Giro d’Italia e fece capire a qualcuno che era lì per vincerlo, venne escluso radicalmente, nel pronostico per la maglia rosa finale, dal migliore (davvero) di tutti noi.
Adesso come la mettiamo, come la mettono con Armstrong e più ancora con Horner, che a quasi quarantadue anni vince la Vuelta scalando montagne durissime e sviluppando una potenza, certificata dalla scienza, mai vista prima, superiore anche a quella di Armstrong? Doping, si dice per Armstrong e si sussurra per lui: ma allora che si dia questo prodotto magico e a quanto pare non mortifero, anzi, a malati, a vecchi e bambini, perché permette di fare cose straordinarie, e lo si liberalizzi onde tutti possano assumerlo.
Esageriamo, ovvio, per farci capire bene. Ma che almeno si accetti che i vecchi parametri, anche giornalistici, appiccicati al ciclismo non servono più. E se il britannico Wiggins e il britankenyota Froome vincono il Tour de France negli ultimi due anni e però provengono dalla pista e dalla strada sia pure non classica, e insomma provengono dal ciclismo (ma non quello solenne e sacro della tradizione italofrancobelga, non quello degli scalatori personificazione forzata di un fachirismo nazionalpopolare), si ricordi che LeMond e lo stesso Armstrong sono ottimi praticanti di altri sport, persino sport della neve. Sono atleti, ecco, sono prima di tutto atleti, questo è il punto. Io non vedo niente di strano se, in un futuro che può essere già domani, un podista sale in sella, un crawlista sale in sella, e con le sue gambe potenti spinge sui pedali e diventa forte ciclista (d’altronde non vi ha detto niente il signor triathlon?). Specialmente adesso che i nuovi materiali gli permettono di trasferire tutta la sua potenza, meglio tutto il suo atletismo sui pedali. Pazienza se non avremo più una pulce dei Pirenei, un camoscio delle Alpi, il nano e l’asceta delle salite. E magari un cinese alto - ce ne sono, oh se ce ne sono, nel 1966 visitai spostando i miei centosettanta centimetri l’Università di Pechino e vidi tanti studenti che ci sembravano pivot del grande basket, e infatti ci sono cinesi nella Nba - vincerà il Giro d’Italia trionfando sulle nostre montagne.
Bestemmiamo? Lo dirà il futuro, amen. Ma intanto ci permettiamo una chiusura in francese, omaggio ad una lingua che non si parla più neanche ai banchetti dell’Uci, quando la parlava persino Rodoni, e usiamo un anzi il francese di François Villon e George Brassens, per chiedere con leggera perfidia: “Mais où sont-ils les réputés techniciens d’antan?”.
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