Donati:«Il ciclismo ha fatto tanto, ora serve uniformità»

DOPING | 02/04/2013 | 09:01
Odiato e amato, deriso e glorificato, emarginato e preso ad esempio: Sandro Donati piace o non piace. O si è con lui o contro di lui. O lo si considera uno dei più rigorosi esperti nella lotta al doping o un fanatico integralista alla ricerca ossessiva di una verità che non può essere necessariamente bianco o nero, ma ricca di sfumature di grigio.

Per il mondo scientifico è sicuramente una delle personalità più considerate. Uno degli italiani migliori. Non c’è convegno o simposio sul doping al quale lui non sia chiamato a presenziare come relatore, come testimone, co­me ricercatore accreditato e sapiente. Per il mondo è credibile come pochi, documentato come nessuno. Non per niente è consulente della Wada, agenzia mondiale dell’antidoping.

Pensatela come volete, ma Sandro Do­nati, 65 anni e una vita trascorsa nelle stanze e anche nelle cantine del Coni per 35 anni, fra polemiche e incarichi prestigiosi, discriminazioni e attestati di stima, è il personaggio più rilevante nella storia dello sport in materia di doping. A novembre è uscito il suo Lo sport del doping / chi lo subisce e chi lo com­batte, 300 pagine, edito dalle edizioni del Gruppo Abele di Don Ciotti (16 €). Questo lavoro segue quello del 1989, Campioni senza valore e misteriosamente sparito dalle librerie nel breve volgere di tempo e non perché il libro sia andato a ruba. Tutt’altro.

Donati, come è andato questo ultimo la­voro e quale è stata la reazione del Pa­lazzo, visto che l’ha messo a nudo abbastanza chiaramente?
«Intanto voglio dirle che questo ultimo lavoro nasce proprio dal desiderio di far sapere certe cose dopo che il primo era stato in pratica censurato. All’e­po­ca il Coni fece pressioni sull’editore, che stampò poche copie e quelle poche furono tutte comprate molto probabilmente dallo stesso ente sportivo o da chi voleva fare un favore al Coni. Così quando don Luigi Ciotti mi ha esortato a scrivere qualcosa sulle mie esperienze in materia di lotta al doping nello sport, sono ripartito esattamente da li. Ho in pratica riscritto quello che nessuno aveva letto, e devo dire che il risultato è stato sorprendente, perché non pensavo potesse avere così tanto successo o potesse suscitare così tanto interesse. Siamo già alla quarta ristampa e l’editore sta pensando di stamparne ancora. Quindi, il risultato è stato più che buono. In merito invece alle reazioni avute da questo lavoro, posso solo dirle che mi è pervenuta solo qualche minaccia di querela, che al momento non ho visto materialmente. Il palazzo, invece, ha taciuto. Salvo qualche frase di circostanza dell’ora segretario generale e presidente del Coni. Il presidente Petrucci è uscito con una battuta piuttosto infelice quando ha detto: “fa­cile parlare quando non si hanno re­sponsabilità dirette”, come a dire che lui invece responsabilità dirette ce le ha avute, e deve misurarsi con l’esigenza di vincere medaglie. Io non posso che interpretarlo in questa maniera».

Manuela Di Centa non ne esce benissimo da questo suo lavoro: come l’ha presa?

«Ha dato parola ai suoi avvocati, ma ad oggi non ho visto nulla nemmeno da loro. Lei in verità si era già fatta sentire a settembre, quando fui invitato in Finlandia per la presentazione di un film-denuncia realizzato da Arto Halonen, (Sinivalkoinen vahle, “La menzogna biancoblù”), uno dei registi più popolari del suo Paese, che con questo lavoro ha fatto luce sulla pratica del doping da parte dei più grandi fondisti finlandesi. In occasione di quella presentazione non feci altro che confermare le pratiche di quegli anni. Non usai giri di pa­role per confermare la tesi del film, in particolare nei confronti di una delle più grandi campionesse dello sci di fondo az­zurro, Manuela Di Centa ap­punto: in quegli anni, fece uso di Epo. Non lo dico io, ma i periti e la magistratura di Ferrara. E se mi ar­riveranno delle querele, sarò felice di poter fare chiarezza una volta per tutte e magari apriremo anche qualche altro scenario. Le posso dire di più. Halonen cercò anche di intervistare la Di Centa, la quale si rese disponibile e gli diede appuntamento a Montecitorio, ma quando si trovò di fronte il regista finlandese che chiedeva spiegazioni sui dati ematici alla vigilia dei Giochi del 1994, lei si è al­zata e se n’è andata via. In seguito venni a sapere che minacciò il regista e il sottoscritto di querela. Anche in quell’occasione solo minacce e  niente azioni legali. Ma resto fiducioso e in attesa».

Anche il professor Francesco Conconi non ne esce benissimo…

«Presumo che lui sia in grado di fare una valutazione più complessiva della situazione. Così come è stato piuttosto realistico quando si è guardato bene dall’appellarsi alla sentenza della giudice Oliva che semplicemente lo archiviava per prescrizione. Avendo lui e la sua difesa impostato le richieste su un proscioglimento per non aver commesso il fatto e perché il fatto non costituiva rea­to, ha messo la giudice nell’obbligo di dover rispondere dettagliatamente a quelle richieste rigettandole. Quindi è evidente che avrebbe avuto tutti i motivi, sentendosi innocente, di appellarsi. Invece si è tenuta stretta la sua archiviazione per prescrizione, così come se la sono tenuta stretta i dirigenti del Coni, Pescan­te, Carraro e via elencando. Tutti avrebbero po­tuto appellarsi e invece hanno accettato di buon grado la prescrizione. Ad ogni buon conto, tutta la seconda parte del mio libro è dedicata a Conconi: il boom dello sci azzurro a Lillehammer 1994; la relazione di Conconi in cui confessava di aver sperimentato l’epo su 23 atleti dilettanti, che in pratica erano Di Centa, Al­ba­rello, De Zolt, Fauner etc etc. Racconto del malore della Di Centa nel 1994 nel­la Coppa del Mondo in Finlandia e del­la diagnosi telefonica di Conconi di “peritonite”. Insomma, ci sono tante  cose».

Scusi Donati, ma a livello legale accettare una prescrizione per lei è un reato…

«Certo che no. Lo so anch’io che è un diritto della difesa, però se accadesse a me, farei di tutto per fare chiarezza e uscirne il più possibile immacolato».

Leggendo il suo libro è evidente che lei sia stato per anni vittima di mobbing all’interno del palazzo Coni.

«È così. Non mi hanno certamente fat­to ponti d’oro, anzi. Scrivania nel sottoscala e via andare. D’altra parte ho visto cose che voi umani nemmeno po­te­te immaginare. Io in questo lavoro ripercorro 30 anni di scandali. Ci sono tutti i personaggi dell’epoca: Franco Carraro (presidente del Coni), Primo Nebiolo (presidente della federatletica mondiale), Mario Pescante (segretario generale del Coni). Ricordo una frase che è simbolo di un modo di pensare, detta a me da Enzo Rossi, all’epoca ct dell’atletica leggera: “Al pubblico interessano le medaglie. Tu sei in grado di raggiungerle solo con l’allenamento? Ottenere risultati significa per la federazione maggiori finanziamenti e maggiori possibilità per tutti noi”. E da qui parte tutto. L’autoemotrasfusione in­tro­dotta da Conconi, gli scatoloni di steroidi anabolizzanti da me trovati nell’84 nelle stanze della federatletica. Episodi sconcertanti come la pedana-terrazzo per i lanci di Andrei, il salto in lungo taroccato di Evangelisti, ma an­che il tentativo di rovinarmi come allenatore nel ’97 con la manipolazione delle urine dell’ostacolista Di Terlizzi, una mia atleta, ma fortunatamente so­no riuscito a dimostrare l’arcano, e ne sono uscito alla grande. E poi le parole di Zeman che fecero tremare il mondo del calcio e svelarono l’inganno dei la­boratori dell’Acqua Acetosa, che poi furono chiusi. Cosa posso dirle ancora? La sparizione del dossier-epo, che nel ’93 trasmisi a Pe­scante e Pagnozzi. Insomma, un libro che dice delle cose, tutte in maniera documentata. Ma dice soprattutto una cosa: il doping c’è an­cora e ce n’è più di prima in tutti gli sport. Il caso Schwazer è evidente. E questo sistema doping, se non creato, è stato perlomeno avvallato e mai veramente combattuto dallo sport. La logica è una e una sola: quando si trova il pollo, lo si spenna e muore da solo. La colpa è solo dell’atleta, ma dietro c’è un sistema. Dietro c’è una fabbrica che deve produrre risultati a qualunque costo. Se poi qualche d’uno resta impigliato nelle maglie dell’antidoping, lo si trucida per benino».

Dal libro ne escono male anche i politici.

«Tutti, in egual misura. Destra, sinistra, centro. Da Veltroni, freddo, se non ostile, alla Melandri che ha però il me­rito di aver avviato la legge sul do­ping».

Oggi lei di cosa si occupa?

«Intanto sono in pensione e oggi opero all’interno dell’associazione antimafia “Libera” di don Ciotti. È dal 2000 che lavoro con loro, quando mi chiamarono grazie a Gabriella Stramaccioni, ex atleta e vice-presidente dell’associazione. Loro compresero subito la portata della mia battaglia e mi diedero il loro incondizionato appoggio. All’epoca so­no stati davvero fondamentali, perché non c’era la sensibilità in materia di an­tidoping che c’è oggi. Così, per diverso tempo, sono stato il responsabile del settore sport e del consiglio direttivo, mentre oggi mi occupo soprattutto dei progetti di prevenzione nelle scuole sul territorio. In questi anni, poi, ho fatto tante altre cose.  Per tre anni sono sta­to nella Commissione di vigilanza del Ministero, con la quale ho avviato di­versi progetti, con una strategia progettuale ad ampio respiro che ha portato a lanciare dei grandi progetti strutturali che potessero incidere sul fenomeno del doping. Come ad esempio una collaborazione con il Consiglio Superiore della Magistratura per dare vita a corsi o a seminari di aggiornamento dei ma­gistrati sulla problematica del doping; corsi di formazione dei carabinieri del NAS, e via elencando. Poi, alla fine del 2006 è arrivata la mia collaborazione con la Wada. Tutto ebbe inizio in occasione di una mia partecipazione a Play the Game a Copenhagen. Io ero tra i relatori e ricordo che era appena esplo­­so lo scandalo dell’ormone della crescita e nella conferenza stampa finale dis­si chiaramente che la Wada si era di­mostrata non credibile perché aveva sentito solo la campana del Coni. A quel punto mi contattò il direttore ge­nerale della Wada David Howman che venne in seguito a trovarmi a Roma e mi confermò che parte della documentazione era stata celata dal Coni. Così cominciarono una serie di confronti e scambi di opinioni e all’inizio del 2007 andai a Montreal per tenere alcune re­lazioni che mettevano in luce l’inef­ficacia marcata del sistema antidoping. Il titolo era: “Che cosa c’è dietro ai negativi dei vostri controlli antidoping”. Il pratica sostenevo la tesi che il sistema antidoping è un groviera nel quale è facilissimo destreggiarsi e utilizzare sostanze non rilevabili, oppure usar­le con una programmazione tale per cui non risultano. La Wada mi chiese di predisporre per loro un progetto i cui punti essenziali erano due: prestare attenzione alla problematica dei traffici e dimostrare la fragilità del sistema antidoping. Oggi c’è il passaporto biologico, ma è mirato a prevenire il doping solo negli sport di resistenza e ignora completamente tutti gli sport di forza e potenza. È vero, anche gli sport di resistenza sono basati sulla forza e sulla po­tenza: il ciclismo è uno di questi. Però questo protocollo bisognava svilupparlo in maniera completa e articolata, cosa che non è stata fatta. E qui ci riallacciamo allo studio del Gh, che se sviluppato in tempo, avrebbe portato nel giro di un paio di anni a definire un sistema molto più articolato e affi­da­bile. La Wa­­da mi chie­se an­che un report sui traf­fici mondiali delle so­stanze dopanti. Poi la collaborazione è pro­seguita su diverse cose, fino a luglio dello scorso anno quando, insieme ad una criminologa belga di origini italiane, Letizia Paoli, ho realizzato un report sulla situazione italiana a 12 anni dalla legge antidoping. Lì ci sono i risultati delle indagini giudiziarie, una stima basata su di­versi fattori del numero di assuntori di doping in Italia, una stima complessiva del volume di affari, della ripartizione di sostanze e via elencando».

Ma questo report ce l’ha solo la Wada?

«Sì, e lo scorso 22 gennaio siamo andati a Losanna - la dottoressa Paoli ed io - e l’abbiamo illustrato in una riunione operativa alla presenza anche della In­terpol e di altri esponenti importanti della lotta al doping».

Da questo report che cosa emerge?

«Diverse cose. Intanto prende in esame tutti i dati disponibili e quindi li compara con quelli del Ministero della Sa­lute e del Coni. Il confronto è impietoso. A fronte di questo 0,6% di positività del Coni, ci sono quelli del Ministero della Salute che oscilla  - a secondo degli anni - tra il 3,5 e il 4,7%. Sulla base di queste risultanze facciamo tutta una serie di analisi e valutazioni sulle possibili ragioni di queste discrepanze. Una di queste è sempre la solita ed è quella dei controllori controllati: è evidente che il sistema sportivo è un sistema chiuso e non amputa se stesso. Il secondo fattore è che proprio in ra­gione di questo, il sistema sportivo non fa quasi per niente i controlli a sorpresa, che sono gli unici che avrebbero un minimo di efficacia. E poi è chiaro che lo sportivo professionista conosce mol­to bene i modi per aggirare i controlli. Il caso Armstrong è chiaro: conoscono i buchi del sistema antidoping e si muovono dentro con una sicurezza non dico totale ma quasi. Poi il report esamina anche i risultati dell’attività giudiziaria: i sequestri, i procedimenti che sono sta­ti eseguiti in Italia, i tempi lunghi della giustizia che conduce troppo spesso alle archiviazioni e poi anche la necessità di rimettere mano alla legge che è buona, ma è chiaro che va armonizzata in ma­niera più coerente con quella sulle so­stanze stupefacenti».

Ma per combattere i tempi lunghi della giustizia ordinaria che si occupa di sport, non è il caso di varare dei tribunali ad hoc?

«Questo è quello che suggerisce ad esempio Raffaele Guariniello, magistrato procuratore della Repubblica al Tri­bunale di Torino».

Si dice doping e si pensa al ciclismo: è così?

«Assolutamente no. Questo l’ho già det­to più volte e lo ripeto. È vero che il ciclismo si presta molto perché non riesce a tirarsi fuori da questo pantano, anche per via della durezza delle sue gare, della sua disciplina, ma è altrettanto vero che nel ciclismo emergono più casi perché gareggiando per tantissimi giorni all’anno e essendo continuamente esposti ad un controllo totale, i ciclisti sono un facile bersaglio. Ma esistono tutta un’altra serie di discipline sportive che hanno dei calendari di competizione molto più delimitati, che possono fare, lontano dalle competizioni, quello che vogliono. È il caso del nuoto, dell’atletica, dello sci, tanto per citare alcuni sport. Lunghi periodi di preparazione, nei quali gli atleti scompaiono letteralmente dalla circolazione e nessuno si prende la briga di andarli a testare co­me fanno con i ciclisti anche nei pe­riodi lontani dalle competizioni. È nei mo­menti di allenamento che un atleta ricorre al doping: si prepara in tutti i sensi. Nel ciclismo c’è il passaporto biologico, il sistema Adams che impone ad un atleta di comunicare giorno dopo giorno i suoi spostamenti, affinché possano arrivare i controlli a sorpresa anche se sei in vacanza: negli altri sport non c’è nulla di tutto questo. Il ciclismo ha tante co­lpe, ma ha il grande merito di fare - no­nostante tutto - molto più di altri. So­prattutto nella lotta al doping. Il caso Schwazer è evidente. Lui aveva fatto tutto quello che doveva fare lontano da occhi indiscreti. Il Coni, la Federa­tle­tica, se ne sono ben guardati dall’andare a disturbare il manovratore. Anzi, l’ex segretario generale del Coni Raffaele Pa­gnozzi, in una intervista a La Gazzetta dello Sport (del 5 luglio, rilasciata a Ruggiero Palombo, ndr), disse: “Perso­nal­mente poi vivo di una spe­ranza che ormai è quasi una certezza: che Schwa­zer faccia sia i 20 che i 50 km di marcia. Lo sport vive di leggende e lui ha tutto per diventare una leggenda dello sport”. Se­condo voi un alto dirigente di un ente come il Coni sarebbe mai andato a controllare Alex? Certo che no. D’altra parte Raffaele lo conosco molto bene, eravamo iscritti alla Poli­sportiva As Frascati entrambi, io atletica lui rugby. È proprio a lui che nel ’94 feci notare che dal nostri laboratori non uscivano positività, e lui mi ri­spo­se: “San­dro, l’Ita­lia è il Pae­se nel quale c’è me­no do­ping”. Quattro anni dopo l’Ac­qua Acetosa fu chiusa. In­som­ma, se non fossero transitate informazioni dall’autorità giudiziaria (pm Benedetto Roberti di Padova, ndr) alla Wada, Schwazer  sarebbe diventato sicuramente una leggenda sportiva».

Basket, pallavolo e calcio sono immuni?

«Allora, io direi questo: gli sport più minati dal doping sono quelli che in cui il doping ha maggiore effetto: questi so­no gli sport basati sulla forza o sulla po­tenza muscolare e sulla resistenza. Quindi tutti gli sport individuali che vanno dal ciclismo all’atletica, al nuoto, canottaggio, canoa, sci di fondo e alpino. E poi ci sono gli sport di squadra. Mi sembra chiarissimo ed evidente che negli ultimi vent’anni è cambiato il loro dinamismo. Vogliamo paragonare i quadricipiti dei calciatori degli anni Set­tanta/Ottanta con quelli di oggi? Gigi Riva, che veniva chiamato rombo di tuono, oggi appare lento e dal tiro fiacco. Oggi i calciatori lanciano la palla ad una velocità impressionante, sono mol­to veloci, sono capaci di ripetere le azioni a brevissimo intervallo di tempo e sono aggressivi. Questo insieme di fattori li metti uno in fila all’altro e ti da l’informazione: è chiaro che utilizzano ormoni anabolizzanti in continuazione. Già in partenza il sistema sportivo è stato ipocrita nel momento in cui ha voluto far credere all’opinione pubblica che era draconiano, imparziale nel colpire sia gli sport dilettantistici che professionistici. Poi al lato pratico non è stato così. Proviamo ad esaminare la traiettoria del rapporto del calcio con il doping: fino allo scandalo del 1998 dell’Acqua Acetosa non emergevano mai casi di positività, dopodichè è esploso lo scandalo che io ho provocato raccogliendo informazioni di qualche tecnico all’interno del laboratorio e poi conducendo Guariniello sulla strada di alcune verifiche che hanno portato al risultato di appurare che le analisi sui calciatori non venivano eseguite. In se­guito a questo chiusero il laboratorio, poi venne riaperto con un nuovo direttore e saltarono fuori undici casi di positività al nandrolone: quindi il doping nel calcio c’era. Poi però dobbiamo analizzare la fase successiva. All’improvviso sono scomparsi nuovamente i casi di positività: cosa vuole dire? Che il doping nel calcio è diventato un fiume carsico, che si è nuovamente inabissato e possiamo tentare di in­terpretarlo prendendo in esame quel procedimento che coinvolse l’Empoli nel quale si appurò che non era chiaro il sistema della scelta dei calciatori da controllare. Ci sono infatti dei dubbi fortissimi sul modo in cui vengono scelti i calciatori da analizzare. In altri termini il calcio è tornato allo status quo. D’altra parte è evidente che l’en­tità del business, così come il valore commerciale di un calciatore, è talmente elevato che è impensabile che un atleta positivo possa essere fermato per due anni perché la spinta economica circostante da parte del club e di tutti gli organismi interessati è tale che alla fine sovrasta come forza il sistema antidoping. Ci sarebbe bisogno di un di­scorso molto pragmatico, nel quale si deve fare in modo di trovare, per i calciatori, delle soluzioni realmente praticabili, ed è altrettanto chiaro che a quel punto vanno riprese in esame tutte le altre specialità sportive, per mettere la parola fine a questa ipocrisia. In conclusione, il doping nel calcio c’è ma la lotta al doping negli ultimi anni si è nuovamente inabissata».

Ma visto che lei è una figura così importante all’interno della Wada, come è possibile che un organismo di tale portata si sia preso in questi anni dei due di picche dalla Fifa e da club come Barcellona,  Real Madrid e via elencando?

«La Wada è nata nel ’99 per volere congiunto del Cio, dell’Unione Euro­pea e di alcuni governi. È chiaro che i Governi a quel punto avrebbero dovuto essere conseguenti. Che cosa vuol dire? Non basta soltanto preoccuparsi di versare sempre e regolarmente le lo­ro sovvenzioni (non tutti i governi aderenti lo fanno con regolarità) o inserire i propri rappresentati nel direttivo del­la Wada. Il problema qual è? L’Unione europea e i governi avrebbero dovuto richiedere la veste pubblica. La Wada ha fatto tanto, moltissimo, ma deve diventare in ente pubblico, non può ri­manere sotto l’egida del CIO, che è un ente privato. Vi ricordate l’Operacion Puerto in Spagna, lo scandalo che ha por­tato alla squalifica di Basso, Ull­rich e altri grandi campioni del ciclismo e solo del ciclismo? Il lavoro è stato fatto a metà. Il sistema si chiude, si difende, rigetta quello che deve rigettare e salva quello che può. D’altra parte per quel preziosissimo lavoro investigativo, Mar­co Arpino fu emarginato dal Coni».

Conconi e Ferrari: ci sono differenze?

«Nella sostanza no. Se vogliamo, nella sua spregiudicatezza è più umano il secondo. Ferrari persegue chiaramente un arricchimento personale, lui stesso non ha mai negato questo e ha sempre finalizzato la sua attività al guadagno. Di Conconi questo non si può dire. Lui chiedeva montagne di denari per po­tenziare il suo centro. Fatta questa premessa, io ti ripeto che umanamente è più comprensibile Ferrari che Conconi, perché il professore ha troppi compartimenti mentali e lui con assoluta disinvoltura ha recitato una parte molto pe­ricolosa a livello pubblico. Vogliamo parlare di quel suo reiterato e prolungato periodo nel quale voleva far credere che l’emotrasfusione la faceva solo agli anemici? Vogliamo parlare di quando descriveva il corridore di resistenza come un soggetto che proprio in ragione di questa pratica andava soggetto all’anemia e di conseguenza dava una spiegazione distorta e assolutamente ingannevole di tutto il suo operato, visto che nella sostanza aveva abusato delle sue conoscenze per in­ventare una patologia inesistente? Per non parlare poi di quando ha toccato il punto estremo di perversione presentandosi a tutto il mondo addirittura come il paladino della lotta al doping. Questo Michele Ferrari non l’ha mai fatto, glielo dobbiamo riconoscere. Mi­chele Ferrari è Michele Ferrari punto e basta, anche nella sua scelta spregiudicata. Conconi invece, mentre trattava e monitorava atleti di diversi sport con pratiche dopanti, al tempo stesso era il presidente della commissione medica dell’Uci, era membro della Commis­sio­ne medica del Cio, era un factotum mol­to quotato e riconosciuto del Coni. C’era qualche conflitto d’interesse, ma né lui, né chi per lui si sono mai fatti problemi. Ferrari non ha mai preteso di mettersi in evidenza per invenzioni di carattere scientifico, invece Conconi sì, e questa posizione è molto più gra­ve. Senza parlare del test Conconi. L’at­ti­vità cardiaca si caratterizza di due aspetti: il primo è il numero dei battiti, l’altro è la quantità di sangue che va in circolazione ad ogni battito. Il suo test prendeva in considerazione solo uno di questi due fattori: la frequenza con la quale il cuore si contraeva. Ma non po­teva assolutamente valutare quanto san­gue mandava in circolo. Quindi, già in partenza ha fatto una furbata, facendo credere che monitorando solo uno dei due fattori si avesse un’idea del tutto».

Come inquadra la vicenda Armstrong?

«Per me la vicenda è quella dell’Uci e di Hein Verbruggen. Vi ricorderete quan­do Verbruggen da Sydney di­chiarò “io mi meraviglio come il Coni possa tenersi dentro due funzionari come Donati e Bellotti”. È Verbruggen che ha messo Conconi a presiedere la Commissione medica dell’Uci. È lui che ha sempre negato tutto, fino all’ultimo, proprio come Armstrong. Poi cosa le posso dire? Nel 2004 il mio ami­co David Walsh aveva già denunciato tutto: perché molti giornali, in primis La Gazzetta dello Sport, hanno continuato ad incensare il texano? Non si sono posti nemmeno una domanda?».

Ha senso aver tolto ad Armstrong i suoi sette Tour de France a distanza di anni?

«No, sono solo delle pezze peggio del buco».

Anche l’Aso e il Tour non ne escono bene…

«Sono ipocriti come pochi, hanno nei loro albi d’oro ancora il nome di Bjar­ne Riis, un reo confesso. Però non so­no i soli ipocriti. Vogliamo parlare dei re­cord del mondo del nuoto? Sono semplicemente ridicoli. Ed erano talmente imbarazzanti che hanno cercato di nascondere le proprie vergogne dietro ai costumi stupefacenti, quando invece Phelps ha gareggiato sempre e solo a torso nudo. Il problema è che il nuoto è arrivato al doping un po’ dopo, e quando ci sono arrivati, compresi tutti i nostri pseudo campioni, hanno demolito record con facilità disarmante».

Secondo lei il governo dell’Uci dovrebbe dimettersi?

«Senza dubbio. E i giornali dovrebbero chiederlo a gran voce. È vero, non è l’opinione pubblica che li elegge, ma sono gli sportivi che hanno la forza e il diritto di dire che vogliono uno sport migliore e credibile».

Non trova che l’Uci debba demandare ad enti terzi e neutri i controlli antidoping?

«Assolutamente sì, ma questo discorso vale per tutti gli sport. Come le ho det­to, la Wada dovrebbe diventare a tutti gli effetti un ente pubblico per essere terzo e super partes».

Non è imbarazzante il silenzio del Cio per il caso Armstrong? Non avrebbe dovuto aprire lui una commissione d’indagine sull’operato dell’Uci?

«Il Cio ha tutto l’interesse a non disturbare il manovratore. Se Verbruggen riesce a difendersi, il Cio non lo pugnala, se gli organi d’informazione lo incalzeranno e lo faranno confessare, allora il Cio lo scaricherà. Funziona così. Al me­todo usato date voi un nome».

di Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di marzo
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COMMENTI
tante belle parole...
2 aprile 2013 10:26 mdesanctis
... però anche dell'Operation Puerto, finora, conosciamo solo i nomi dei ciclisti. Dagli altri sport coinvolti omertà assoluta...
mdesanctis

E il mondo in generale
2 aprile 2013 11:32 emmemme53
Bella intervista, risposte esaurienti, nomi eccellenti che diventano polvere. Ok tutto bene. Smettiamo, però,di considerare lo sport (tutti gli sports) un cancro sociale. La Società è piena anche di finto perbenismo, di buchi finanziari inimmaginabili, di scontri politici aberranti, anche di guerre che a noi non interessano perché lontane. Il doping nello sport ha radici molto antiche, quasi millenarie, e oggi è figlio anche del più disinteressato (nel senso più dispregiativo ed anti culturale) mondo in cui viviamo.

buchi sistema antidoping
2 aprile 2013 13:33 kaiser
"Il secondo fattore è che proprio in ra­gione di questo, il sistema sportivo non fa quasi per niente i controlli a sorpresa, che sono gli unici che avrebbero un minimo di efficacia. E poi è chiaro che lo sportivo professionista conosce mol­to bene i modi per aggirare i controlli. Il caso Armstrong è chiaro: conoscono i buchi del sistema antidoping e si muovono dentro con una sicurezza non dico totale ma quasi"

Allora questi buchi del sistema antidoping vediamo di eliminarli!! Nei professionisti il sistema sembra cambiato e questo secondo me ha ridato un pò di credibilità al ciclismo, magari mi sbaglio ma ora vedo un ciclismo molto controllato e pulito, questo è anche dimostrato dalle medie di gara più basse, infatti ora secondo me a livello professionistico il ciclismo è uno degli sport più puliti, ma questi buchi del sistema antidoping dovrebbero venire anche rimossi dal mondo dei dilettanti, dove come ai tempi di armstrongci si muovono con sicurezza!!

Mah
2 aprile 2013 15:13 Ruggero
Appena finito di leggere il libro di Donati, allora i fatti sono due, o Donati è un pazzo e francamente non lo penso o i pazzi sono quelli che permettono a certi ex di bazzicare ancora il mondo del ciclismo e vengono anche candidati come futuri CT della nazionale.
Ahh dimenticavo ad oggi dei nostri grandi ex ancora nessuno ha confessato, ripeto, come siamo fortunati !!! unica nazione ad aver vinto quasi tutto con corridori tutti puliti.......verginelloni.

2 aprile 2013 21:07 giardi
SUPPONGO CHE IL DOPING SIA UNA PRASSI COLLEGATA ALL’ANSIA DA PRESTAZIONE ATLETICA RIFERITA AL RAGGIUNGIMENTO DI UN RISULTATO ESTREMO CHE SODDISFI DEI VINCOLI DI MANDATO (CONTRATTI, GLORIA O ALTRO).
NELLO SPORT CONCEPITO NELLE SUA ACCEZIONE NOBILE, CIOE’COME RAGGIUNGIMENTO DEL BENESSERE PSICO-FISICO UNITO A LEALTA’ E RISPETTO, IL PROBLEMA DOPING CREDO NON SI PONGA, MENTRE QUALORA LO SPORT DEGENERI IN MESTIERE O SIA FINALIZZATO ALL’ESASPERAZIONE DELLA PRESTAZIONE, L’ADOZIONE DEL TRUCCO DIVENTI PROBABILE.
L’ATLETA PROFESSIONISTA O COMUNQUE AGONISTA CREDO SIA ASSIMILABILE ALLA CATEGORIA DEI LAVORATORI DELLO SPETTACOLO NON ALL’ESSENZA DELLO SPORT, PER CUI LE SUE GESTA RITENGO TENDANO A SODDISFARE, SORPRENDERE E DIVERTIRE CHI LO GUARDA E CHI LO PAGA, COL GRAVE PERICOLO PERO’ CHE IL SENSO MORALE POSSA VENIRE DERUBRICATO A REQUISITO SECONDARIO.
PURTROPPO DOVE NON VIGE L’ETICA DELLA RESPONSABILITA’, E NEL NOSTRO PAESE BASTA GUARDARSI ATTORNO PER TROVARNE ESEMPI OVUNQUE, LE PERSONE PER BENE COME SANDRO DONATI PIU’ SCOPERCHIANO I PENTOLONI DEGLI ALCHIMISTI, PIU’ VENGONO EMARGINATE.

DAVIDE GIOLITTO, RIMINI.

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