CATALDO. Il Picasso del ciclismo

| 02/11/2012 | 09:07
Una stagione da incorniciare. Co­me un Picasso. Sopranno­me dell’artista-ciclista Dario Cataldo. Il ventisettenne abruz­zese professionista dal 2007, dopo due stagioni alla Liquigas e quattro alla Quick Step unitasi, per quest’ultima annata con l’Omega Pharma, è pronto a passare al colosso inglese Sky, per farsi conoscere da Bradley Wig­gins e Chris Froome non solo per la sua grande passione per il disegno. Il vincitore del Giro d’Italia Baby 2006, con sette vittorie nella massima categoria, chiude il 2012 con la maglia tricolore vinta nel Campionato Italiano a cronometro, il successo nella tappa regina della Vuelta a España, l’ottima prova in azzurro ai mondiali di Valkenburg e la convinzione che questo sia solo l’inizio di una carriera ancora tutta da pennellare.
Presentati.
«Sono nato il 17 marzo del 1985 a Lan­ciano. Vivo a Miglianico con mamma Li­lia e papà Michele, che ha corso fino alla categoria dilettanti poi si è dato al cicloturismo. Ho due fratelli: Marco che ha 30 anni ed è geometra e Cinzia, che ne ha due in più ed è mamma di un bel bimbo di tre anni e mezzo. Qualche mio numero? Sono alto 175 cm e peso 67 chili, 38 battiti cardiaci a riposo, 196 battiti di frequenza cardiaca massima, 430 watt in soglia. Caratterialmente preferirei lasciare agli altri il giudizio, anche perché sono molto critico con me stesso. Comunque sono un ragazzo tranquillo, socievole quando ho confidenza con una persona, un po’ timido invece con chi conosco poco. Quando ho un obiettivo in mente lo perseguo senza distrazioni, deciso e tenace».
Quando hai mosso le tue prime pedalate?
«Sono in sella da sempre. Vivendo in campagna, la bici è stata ed è spesso il mio mezzo di trasporto. La prima corsa a 10 anni, quando dopo un paio di cicloraduni con papà, mi iscrivo per gio­­co al Pedale Teate Free Bike, la squa­dra che mi accompagna dai Gio­vanissimi agli Juniores. La prima bi­ci era della squadra, una di quelle vecchie con le gabbiette in cui infilare i piedi, i fili del freno che escono dal manubrio e le levette del cambio sul telaio. Ricordo come fosse ieri la prima gara a cui mi presentai convinto di spaccare il mon­do, invece gli altri bambini andavano a mille e io avevo come punto di riferimento una ragazza con una bella treccia lunga che, nonostante l’orgoglio, non sono riuscito a riprendere».
Che corridore sei?
«Mi sto dimostrando un regolarista che a crono si difende, tiene bene nelle corse a tappe e può dire la sua in volate ristrette. Un atleta piuttosto completo, di grande fondo che ha bisogno di cor­se molto lunghe. Per raggiungere la for­ma migliore ho bisogno di correre davvero tanto».
Non sei mai stato considerato troppo dai media...
«Penso che debbano parlare i risultati, non io. Sono un ragazzo silenzioso, che non ama i proclami, forse per questo vengo un po’ sottovalutato. Tra i professionisti ho cominciato facendo il gregario e ogni stagione cresco un pochino. Non sono uno che si autocelebra e non mi infastidisce troppo ricevere po­che attenzioni, e poi la vittoria alla Vuel­ta e le altre soddisfazioni che ho raggiunto mi stanno aiutando a farmi conoscere».
Chi devi ringraziare per dove sei arrivato?
«Togliendomi qualche sassolino dalla scarpe e senza voler far polemiche mirate, prima di tutto ringrazio me stesso perché i sacrifici che mi hanno portato qui sono soprattutto miei e tante volte mi sono trovato in situazioni in cui mi aspettavo sostegno da persone che avreb­bero dovuto avere un interesse comune al mio e invece mi hanno deluso. Mi sono sempre dovuto guadagnare tutto da solo, nessuno mi ha mai regalato nulla. Certo la famiglia per me è un punto di riferimento fondamentale, è l’unico sostegno che sai non ti abbandona mai».
Con chi ti alleni di solito?
«Con i professionisti della mia zona: Di Luca, Taborre, Spezialetti, alcuni dilettanti under 23 e Alessio, un amico che non gareggia ma si allena come un professionista: 9 allenamenti su 10 c’è. Quante ore in media al giorno? L’al­lena­mento in sè può variare da 2 a 7 ore in base al programma ma oltre alle ore in bici dobbiamo considerare anche il tempo che impieghiamo per addominali ed esercizi vari, stretching, massaggi... Anche quando si fa riposo (allenamento di due ore, ndr) va via come minimo mezza giornata».
L’aspetto migliore e quello peggiore del tuo lavoro?
«Due facce della stessa medaglia: il viaggio. Avere la possibilità di vedere posti nuovi, entrare in contatto con culture diverse, scoprire strade e città nuo­ve è un lusso, ma stare sempre lontano da casa, senza vivere davvero i posti in cui ci troviamo a correre, “vivere da zingari” insomma ha i suoi aspetti negativi. Facendo due calcoli quest’anno sono stato a casa meno di 100 giorni, anzi, pensandoci bene direi molto meno».
Hai un campione di riferimento?
«Non uno in particolare. Mi piace co­gliere aspetti da diversi corridori. Qual­che esempio? La grinta e determinazione senza uguali di Di Luca, uno che non molla mai e non ha mai paura, uno che con la testa vince già prima di iniziare la gara; la costanza e umiltà di Ro­driguez, un campione che va forte tutto l’anno e allo stesso tempo è una persona umilissima. L’ho visto chiedere scusa per piccoli screzi in gruppo e mi è rimasto impresso, al termine della tappa che ho vinto alla Vuelta quando ha ridisceso, dopo aver tagliato il traguardo, la strada per cui eravamo saliti: si è fermato a bordo strada con una bottiglietta d’ac­qua fermo a far rifornimento ai ragazzi che dovevano ancora arrivare in cima al Cuitu Negru. Un capitano, che potrebbe essere servito e riverito, è il primo a mettersi a disposizione dei compagni. Un modello».
Che voto ti dai per questa stagione?
«Un bel 7 perché ho centrato tutti i miei obiettivi o per lo meno ci sono an­dato vicino. È stata così ricca che, tornato a casa dalla Spagna, non ho neanche pensato a festeggiare la vittoria alla Vuelta perché dovevo subito rimettermi a lavorare per il mondiale. Si respirava aria di azzurro e poi avevo in programma il Giro di Lombardia, la corsa per cui ho sempre avuto il pallino, e il Giro di Pechino quindi dovevo restare concentrato, non era proprio il momento di distrarsi. Il 2012 è senz’altro stato il mio anno migliore tra i prof e sono convinto di poter crescere ancora molto».
Spiegaci cosa si prova a vestire la mag­lia tricolore (nel campionato nazionale contro il tempo ha avuto la meglio su Malori e Pinotti, ndr) e quella azzurra (quello olandese è stato il suo secondo mondiale dopo Salisburgo 2006 in cui corse tra gli under 23, ndr).
«Orgoglio. Questa parola potrebbe ba­stare perché racchiude tutto. Ascoltare l’inno dal gradino più alto del podio e far parte di un progetto che porta il nome della tua nazione mette la pelle d’oca solo a pensarci, l’idea di rappresentare tutti i corridori italiani dà una grande responsabilità e riempie di orgoglio».
Anche se alla fine si raccoglie poco, come successo in Olanda?
«Se si svolge il proprio compito al me­glio, come penso proprio di aver fatto io, sì. Alla fine abbiamo portato a casa so­lo un tredicesimo posto con Oscar Gatto, ma non credo che la nazionale abbia meritato tutte le critiche che le hanno mosso certi tifosi e addetti ai lavori. Ha vinto il più forte e l’Italia è sempre stata nella corsa. Abbiamo com­battuto come dei leoni. Io personalmente sono tornato a casa consapevole di aver lavorato per la squadra co­me mi era stato chiesto dal ct Bettini: sono entrato nelle due fughe che hanno caratterizzato la pri­ma parte di corsa e ho faticato finché ne avevo per far sì che i miei compagni stessero coperti il più possibile».
In squadra ti chiamano Picasso perché, oltre a pedalare, ti piace disegnare.
«Ho sempre avuto questa passione, che ho iniziato a coltivare attorno ai quindici anni con degli amici che fa­cevano graffi­ti. Mi diletto con le tec­niche a spruz­zo come spray o ae­rografia (la moto, una FZ6, se l’è “di­segnata” e verniciata da solo, ndr), ma an­che con gli acquerelli e le matite, strumenti più pra­tici da te­nere nel piccolo kit sem­­pre pre­sente nella mia valigia. In realtà alle corse c’è decisamente troppo poco tem­po, ma in ritiro mi metto spesso all’opera».
L’anno prossimo lascerai l’Omega Phar­ma Quick Step per la Sky: tra tanti campioni, pensi di poterti ritagliare un po’ di spazio?
«Non mi fa paura l’idea di lavorare, di dover fare il gregario e ri­nunciare a qualche ambizione personale. Sono contento di entrare a far parte di una squadra molto professionale e dall’organico im­por­tante. L’unica co­sa che potrebbe spa­ventarmi di un salto così è la lingua, ma ormai con l’in­glese me la ca­vo. Proba­bil­mente in questo team potrò dire meno la mia sui programmi ma siamo atleti professionisti, quindi accetterò le decisioni della squadra».
Punterai ancora ai grandi giri?
«L’anno prossimo non so quali corse a tappe disputerò, dipende dalle gerarchie di squadra. Voglio entrare in casa Sky e lavorare in modo umile co­me ho sempre fatto, avrò bisogno di un po’ di tempo per farmi conoscere e ve­de­re se nel 2014 potrò ritagliarmi il mio piccolo spazio. Negli ultimi due anni ho chiuso il Giro d’Italia al dodicesimo posto, non è detto che debba per forza rinunciare al sogno rosa».
Ultime domande per conoscerti meglio. Qual è la prima cosa che fai quando ti svegli al mattino?
«Colazione. Guai a chi me la tocca! Co­sa mangio? Yogurt, cereali, pane o gallette con marmellata e miele, omelette... Insomma quello che c’è. Ho un legame con la tavola speciale, sono dav­vero una buona forchetta tanto che stare a dieta è il mio cruccio più grande, a livello professionale limitarmi nel mangiare è un sacrifico enorme».
L’ultima prima di an­dare a letto?
«Do una sbirciata al computer per vedere cosa succede nel mon­do».
Il tuo piatto preferito?
«Quello grosso, il più capiente».
E nel bicchiere?
«Non sono un gran bevitore, dalla mia terra provengono ottimi vini ma so­no più per la buo­na birra che per il buon vi­no. An­che per questo mi trovavo bene in una squa­dra belga (sorride, ndr)».
L’ultimo libro che hai letto?
«La biografia di Banksy, un writer in­gle­se contemporaneo».
L’ultimo film visto?
«Apocalypto di Mel Gibson».
Che musica ascolti?
«Quella che capita, ma soprattutto hip hop e rock. Nutro una particolare am­mi­razione per Jovanotti. In allenamento ne ascolto molta, ma non sono un pa­tito».
Sei fidanzato?
«Non ho una domanda di riserva?».
Sei credente?
«Sì, anche se alcune circostanze della vita mettono in dubbio la fede».
Ti interessi di politica?
«Relativamente perché la nostra politica ormai mi sembra molto marcia».
Da piccolo cosa sognavi di diventare?
«Volevo diventare come Sampei! Se avessi potuto vivere di pesca sarei stato il bambino più felice del mondo, ma le cose crescendo capisci che sono diverse dai cartoni animati quindi ho lasciato perdere i pesci e mi sono concentrato sulla bici».
E sei contento di ciò che sei oggi?
«Assolutamente sì. Qualsiasi cosa pia­ce, quando diventa un impegno grosso, quando diventa un lavoro, di solito inizia a pesare, per me con il ciclismo non è così. Pensando a cosa avrei potuto fa­re in alternativa (è perito elettrotecnico e si è iscritto senza ter­minare gli studi alla facoltà universitaria di Scienze Mo­torie, ndr), anche a professioni che mi avrebbero stimolato come il preparatore atletico o un im­piego in ambito grafico artistico, credo proprio avrei co­munque trascorso la mia vita sognando di fare il corridore».

da tuttoBICI di ottobre a firma di Giulia De Maio
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COMMENTI
Dario Cataldo....umile e bravo!
2 novembre 2012 14:16 magico47
Questo atleta è meno apprezzato di quello che dovrebbe essere,al contrario di alcuni nostri corridori con tanta boria e poca sostanza.

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Loriano Gragnoli DCI

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