INTERVISTA. Marina Romoli, compleanno con progetti

| 09/06/2012 | 16:14
Sono passati due anni da quel maledetto 1° giugno 2010. Sono passati due anni dal magico 9 giugno 2010. Ed è questa seconda data che vo­glia­mo ricordare. Dopo il grave incidente in allenamento in provincia di Lecco di cui Ma­rina Romoli è stata triste protagonista, mentre pedalava in compagnia del fidanzato Matteo Pelucchi, attualmente professionista alla Europcar e dell’amico Samuele Conti, dilettante della Palazzago Elledent; dopo l’impatto con quell’utilitaria che le ha tagliato la strada, dopo lo scontro con il vetro la­terale dell’automobile, dopo il terribile capitombolo a terra, dopo la paura e il terrore; dopo la perforazione di un polmone, 500 punti di sutura al viso e un trauma alla co­lonna vertebrale con la frattura di alcune vertebre, Marina il 9 giugno è tornata alla vita. Una vita è vero stravolta, ma pur sempre vita. Marina è la prima a non poter cancellare dalla sua mente quanto accaduto, ma è la prima a non abbattersi e a guardare avanti. Per questo con lei vogliamo ricordare il giorno in cui si è risvegliata dal coma. Il giorno del suo ventiduesimo compleanno. Il giorno in cui è tornata tra di noi. Al suo fianco - ora che di anni ne festeggia 24 - ci sono gli angeli di sempre: mamma Marisa, papà Gior­dano, il fratello Paolo, Matteo, gli amici veri e ancora gran parte del mondo del ciclismo. A due anni di distanza abbiamo incontrato Ma­rina e l’abbiamo trovata come al solito sorridente e ottimista, abbiamo ricordato con lei quel 9 giugno di due anni fa e immaginato i 9 giugno che verranno. Per l’ennesima volta siamo rimasti colpiti e ammirati della sua incredibile forza.
Come stai Marina? «Bene, dai. Dopo piccoli miglioramenti, la situazione ormai è stabile. Rispetto a due anni fa sto molto meglio, ma non sono ancora nella situazione che vorrei. Mi trovate an­cora in sedia a rotelle e sapete bene che il mio obiettivo è tornare a camminare. Ancora non ci siamo arrivati, ma continuo a lavorare. Ogni giorno mi sottopongo a sedute di terapia riabilitativa alla ricerca anche di un minimo movimento. Per il viso, mi sono sottoposta a numerosi interventi, a livello funzionale ora sono a posto, ma il chirurgo estetico mi dovrà accompagnare ancora per un po’. La pelle del viso è molto delicata e il postoperatorio non è semplice da sopportare, quindi bisogna lasciar trascorrere un po’ di tempo tra un intervento e l’altro».
Da un mese e mezzo sei tornata a Villa Beretta. «Esatto. I dottori mi hanno proposto di te­sta­re un macchinario sperimentale che si chia­ma ReWalk, un prototipo israeliano di esoscheletro che permette - grazie a un motore elettronico - di riprodurre il cammino. È una sorta di robot, di cui stanno studiando le potenzialità. Mi hanno chiesto di fare da “cavia” perché sono la migliore pa­ziente che hanno mai avuto, sono una che impara in fretta, e questo macchinario ancora da perfezionare non è adatto a tutti. Ser­vono forza, equilibrio e soprattutto elasticità mentale. Siamo proprio agli inizi di questo studio, ma purtroppo il mercato di questo prodotto è molto limitato, quindi ci vorrà parecchio prima che diventi a tutti gli effetti un ausilio sostitutivo alla carrozzina o un mezzo utile per la riabilitazione».
Quando è successo l’incidente il mondo del ciclismo ti è stato molto vicino: ora com’è la situazione? «Come è normale che sia, l’attenzione sul mio caso è calata, ma a dire la verità neanche troppo. La gente non si è dimenticata di me, credo che meno persone mi scrivano e chiamino semplicemente perché non sono più grave come agli inizi. Anche io non mi sento in dovere di dire come sto, di aggiornare costantemente come un tempo sulle mie condizioni perché purtroppo non succede un granché e ora come ora non si può fare molto. Io sono fiduciosa, ma ci sono pochi investimenti per la ricerca e i tempi sono molto lunghi».
A proposito di ricerca e investimenti, come prosegue il lavoro della tua Onlus? «Va avanti e finalmente abbiamo ottenuto il riconoscimento come soggetti destinatari del 5x1000 (codice fiscale Marina Romoli Onlus: 91122600157, ndr). Ne approfitto per ringraziare tutti quelli che anche con un piccolo contributo stanno aiutando la ricerca, dai ragazzi che hanno devoluto alla Marina Romoli Onlus il ricavato delle feste di fine anno e dei loro fanclub (tra questi i professionisti Simone Stortoni della Lampre, Francesco Lasca della Caja Rural e Salvatore Puccio della Sky), a chi ha donato una maglia da mettere all’asta, a chi ha organizzato eventi e iniziative per darmi una mano (la corsa dei Muri Fer­mani e la Challenge del Cappello d’Oro, i re­gali dell’Assocorridori e della Androni Cipi Sidermec) e a tutti quelli che mi sono sempre vicini. Purtroppo al momento non ci sono ricerche importanti, mi sto informando sulle terapie che alcuni ricercatori stanno testando in giro per il mondo per  indirizzarmi su quella più promettente. Finanziare la ricerca non dà risultati subito e questo può scoraggiare, ma io non posso che sperare che qualcuno trovi una cura. In quel caso farò i salti mortali per poterne usufruire, nel frattempo cerco di vivere la mia vita per quanto possibile serenamente».
Come trascorri oggi le tue giornate? «Sono tornata a casa, a Potenza Picena, ma ogni tanto mi tocca tornare in Brianza, a Costa Masnaga, per controlli e visite varie. Da settembre spero di riprendere l’università (Marina sta studiando Economia e Commercio a Macerata, ndr) e in futuro spero di trovare un lavoro, naturalmente part time perchè dovrò sempre continuare con la riabilitazione. Mi serve non solo per il recupero, ma per mantenermi e star bene durante la giornata. Stare sempre seduta è distruttivo e stancante: provate voi a stare seduti tutto un giorno, alla sera vi faranno male le gambe anche se siete perfettamente in salute... La vita in carrozzina non è semplice, soprattutto in Italia. Ho preso la patente di guida speciale ma raramente posso andare in giro da sola perché dove vivo i luoghi accessibili a un disabile sono pochissimi. Il territorio italiano non è su misura per noi e non c’è rispetto, purtoppo c’è molta ignoranza».
Quanto spesso pensi alla bici? «A dire la verità non tanto, o meglio mi è rimasta una grande passione, ma non mi manca correre in bici. Io ora voglio solo ave­re una vita normale, voglio con tutto il cuore tornare a camminare, non penso a gareggiare. Seguo ancora molto il ciclismo, sopratutto quello maschile tramite l’attività di Mat­teo, che aiuto per quel che posso».
Qualcuno ti ha proposto di correre tra le handbike, ma tu non ne vuoi sapere. «È così. Ho risposto che se avessi la possibilità tornerei sulla bici su cui ho sempre ga­reggiato, altrimenti nulla. L’handbike per me sarebbe un ripiego ed è uno sport che non mi piace e mi fa anche paura. In strada le macchine non vedono le bici, figurati uno che è quasi sdraiato a terra. Rispetto e am­miro chi pratica questa o altre discipline simili, ma non fa per me. Nello sport mi so­no tolta delle belle soddisfazioni, ora posso trovare il mio spazio in altri campi».
Il tuo, purtroppo, è solo uno dei casi drammatici che continuano a coinvolgere ciclisti. Cosa ti senti di dire a un ragazzo o a una ragazza che si allena su queste strade sempre più pericolose? «Di fare attenzione sempre e di non fidarsi mai degli automobilisti. Bisogna esitare an­che quando si ha la precedenza, evitare le strade trafficate, avere quattro occhi e usare sempre il casco, che può davvero salvare la vita. A chi invece governa il nostro sport chiederei di investire più in sicurezza piuttosto che in altri campi, importanti sì, ma secondari. I soldi nel ciclismo ci sono, basti pensare a quanto si investe in antidoping. Io preferirei meno controlli antidoping alle gare e meno ragazzi morti... La tecnologia fa passi da gigante e dobbiamo sfruttarla, ma­gari pensando ad altre protezioni per chi va in bici. Il casco anni fa sembrava inaccettabile, magari un giorno si pedalerà con un paraschiena che può salvare gli atleti da una condizione come quella in cui mi trovo io».
E a un’automobilista come la signora che guidava la macchina che ti ha investito? «Potrei dire mille cose, ma se uno non ha la sensibilità verso pedoni e ciclisti nessuna parola ha senso. Tanti automobilisti odiano i ciclisti, qualcuno fa addirittura apposta a far­li cadere. In strada si rischia di morire e chi va in bici non si rende conto di quanto rischia. Io, prima di quel giorno, non avevo mai pensato di poter finire su una sedia a rotelle. Quando vai in bici pensi che se ti va male ti rompi una gamba, invece in un attimo la tua vita può cambiare. Ser­vi­rebbero una coscienza diversa, una cultura stradale da imparare fin da bambini, scuole guida che non ti insegnino che la strada è solo per le auto. I veicoli provocano smog e traffico, prima o poi anche chi non ama la bici capirà che è questo il mezzo che ci salverà».

da tuttoBICI di Giugno a firma di Giulia De Maio
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