Cipollini: «Questo è un ciclismo di signorine»

| 29/01/2011 | 10:22
Capelli scolpiti con il gel, bar­ba di tre giorni, un leggero velo di abbronzatura: Mario Ci­pollini, 43 anni, ci accoglie nella sua bella casa di San Quirico, sulle colline lucchesi. Indossa una ca­micia bianca, un jeans di Cavalli e si dice entusiasta di tornare in gruppo co­me consigliere tecnico della Katusha. Un’idea di Andrei Tchmil, che da tem­po lo voleva al suo fianco. «Vuole che mi occupi dei giovani sprinter russi, che metta al loro servizio la mia esperienza, che trasmetta loro la cultura del ciclismo. Che insegni loro a fare un treno. È un compito affascinante».
Cinque anni dopo essersi ritirato, lei è tornato in grande stile come tecnico del Team Katusha. Anche se sembra non ri­trovarsi nel ciclismo di oggi...
«Il mio era un ciclismo tutto diverso. Prima di lanciare uno sprint, io mi sentivo un gladiatore, pronto a tutto per mantenere la mia posizione. E quando perdevo, non ero capace di andare a complimentarmi con chi mi aveva battuto, come ha fatto, per esempio, Andy Schleck al Tour. Io odiavo il mio avversario perché mi aveva tolto il pane di bocca. Aveva ru­bato il mio momento, la mia gioia, la mia fierezza. Io avevo bisogno di metabolizzare la mia sconfitta. E se qualcuno era stato scorretto, avevo l’istin­to di alzare le mani, spinto dagli ormoni, dall’adrenalina. Sul traguardo della Sanremo del 2003 ho mi­nacciato Eisel di strangolarlo, schiacciandogli il volto con il mio pugno. Tutto perché mi ave­va chiuso ai 300 metri. Sì, l’ho minacciato: “Non permetterti di farlo mai più!” gli ho urlato. E facevo davvero paura, l’ho capito dagli occhi degli spettatori che ci stavano attorno. Ave­vo dentro la cattiveria, ed era giusto così. Perché nessuno mi faceva re­gali. Correndo nelle Fiandre, sul Kop­pen­berg, c’erano gregari che si buttavano a terra davanti alle mie ruo­te, per ostacolarmi. E se mi trovavo in una brutta po­sizione a tre chilometri dal traguardo, Kelly e Vanderaerden or­ganizzavano al volo un ventaglio per farmi finire nel fosso. Era la regola».
La nuova generazione è quindi troppo conformista?
«Sì. Secondo me, i corridori guadagnano troppo senza aver dimostrato abbastanza. Un’immagine mi ha colpito in occasione del mondiale: si vede Hu­shovd tagliare il traguardo, continuare sullo slancio senza esultare perché non è del tutto sicuro di aver vin­to. Poi frena e si getta tra le braccia del suo massaggiatore e Pozzato arriva e gli dà una pacca sulla spalla insinuandosi tra la schiera dei fotografi. Il tutto dura una frazione di secondo. Pozzato si fa soffiare il terzo posto e un secondo dopo non ha che un pensiero, quello di complimentarsi con il vincitore. Ma si può sapere cosa passava nella sua te­sta? Possibile che la vittoria sia divenuta a tal punto un accessorio da non provocare più né gioia né delusione? Nell’ultimo Giro, Basso non aveva ap­profittato di un incidente occorso a Evans in una tappa olandese, quella dei ventagli... Io, al suo posto, mi sarei messo pancia a terra per cercare di far sal­tare per aria colui che si presentava come il mio rivale più acerrimo. Sareb­be stata una guerra santa. Perché non lo ha fatto? Perché avevano lo stesso preparatore... È una spiegazione».
Queste alleanze trasversali non sono una novità. Ci sono sempre state...
«Tra grandi sì, ma si stanno moltiplicando. Capita che i procuratori abbiano sotto contratto corridori leader di formazioni diverse, che spesso sembrano correre come compagni di squadra. È il conflitto di interessi che spiega, forse, tutti questi buoni sentimenti. Un fenomeno nuovo. Vedere Schleck e Con­tador abbracciarsi sul Tourmalet, dopo il traguardo, poi i due scherzare insieme durante le interviste: beh, per me è fuori dal normale. Secondo logica, Schleck avrebbe dovuto essere fu­rio­so con se stesso: aveva appena perso il Tour!».
Schleck sembrava cercare un accordo...
«Dopo l’episodio del salto di catena del Port de Balès, avrebbe dovuto at­tac­care lo spagnolo ogni giorno, davanti alle telecamere, ai microfoni delle radio, senza lasciargli il tempo di replicare. “Contador mi ha provocato, ora lo provoco io”. Invece credo che sia suc­cesso questo: Riis ha dovuto gestire la questione in seno al suo team e fare a Andy una sorta di lavaggio del cervello, sapendo di avere già Contador sotto contratto. Ma così ci si allontana dal ciclismo, che resta uno sport estremo in cui il corridore ha sempre vissuto, suo malgrado, lontano dalla cortesia, per sopravvivere e restare a galla».
Il Tour era, fino a poco fa, il teatro di una certa virilità, la stessa che lei incarnava. Sono tempi ormai passati?
«I campioni della storia avevano dei volti ruvidi, sembravano tori dalle narici fumanti. Erano capaci di sopportare le sofferenze peggiori e portavano con sé dei sogni straordinari. E puntavano sull’aggressività per sopravvivere dove gli altri morivano. Nessuno poteva im­maginarsi, allora, di vedere Coppi complimentarsi con Bartali o Merckx stringere la ma­no di Thévenet dopo una sconfitta. Ades­so io non sento più, nei leader, lo stesso bisogno interiore di affermarsi. Il machismo sta sparendo. E non lo trovo certo in Contador».
Forse perché non ha avversari...
«No, non per questo. Contador ha il volto anonimo di un geometra, di un ragioniere. Quando si alza sui pedali, non lo sento vibrare. Non ha lo stile tipico di un campione che è pa­drone della sua bicicletta, non ha l’armo­nia di un Merckx che, in pieno sforzo, sembrava potesse piegare la bicicletta tanta era la forza delle sue braccia».
Il ciclismo sarebbe diventato in qualche modo asessuato
«Ho letto un’intervista del professor Umberto Veronesi. Tra cinquecento anni o giù di lì, l’essere umano potrebbe essere dotato di entrambi gli organi genitali, ma­schile e femminile (ride mentre lo dice..., ndr). Non vorrei che que­sta evoluzione sia già cominciata nel ciclismo».
Lei, quando si è ritirato, sognava di allestire una sua squadra: è un progetto che le sta sempre a cuore?
«Due anni dopo il ritiro, sono rientrato alle corse negli Stati Uniti, perché pensavo di avere trovato in Mike Ball, patron del­la Rock and Re­pu­blic, uno sponsor con la vo­glia di innovare. Avrei dovuto correre un anno, lanciare il mio marchio di abbigliamento sportivo, di­ventare il manager di una squadra che in due anni avrebbe dovuto puntare a vincere il Tour. Ma mi sono fatto fregare. E non potevo fare più di quel che ho fatto. Ripensare ad un progetto oggi è difficile, c’è un tale casino in Italia per questioni di doping che tutto è di­ventato problematico. Il procuratore Torri ci ha messo del suo dicendo che tutti i corridori si dopano. Una eresia».
Parole, quelle di Torri, che sembrano quelle di un uomo scoraggiato...
«Ha anche detto che bisognerebbe le­galizzare il doping, se non fosse pericoloso per la salute. Una riflessione intima, di grande leggerezza o di scoraggiamento non lo so, ma della quale ha mal valutato le conseguenze. E che avrà un effetto disastroso per il nostro sport».
Ma al tempo stesso le sue parole poggiano su fatti concreti: Basso, Riccò, Di Luca, Re­bellin sono caduti nella rete dell’antidoping. E molte inchieste sono ancora in corso...
«I casi in questione si incrociano spesso e il problema è complicato. In ogni caso, salverei Basso, il cui caso è all’inizio del problema. Il vero manipolatore, era Fuentes. Era lui che lavava il sangue e tutto il resto. Basso è stato usato come capro espiatorio, ha pagato, con umiltà si è risollevato fino a vincere il Giro. Ma tutti quelli che sono venuti do­po, sapevano e con loro io sarei mol­to meno tollerante. Sbagliarsi è umano, ma continuare a farlo è diabolico».
Ma come trovare una soluzione equa per tutti?
«Il problema è che un corridore non si dice “Più mi dopo, più guadagno”. No, è qualcosa di più intimo, di più egoista. Molti si dopano pur sapendo che questo non sarà abbastanza per farli vincere. La soluzione? Io non ne vedo che una, drastica: la radiazione. È il mo­men­to di far paura alla gente. È necessario che chi risulta positivo, venga al­lontanato. Per sempre».
In materia di doping, sono sempre i corridori che pagano, raramente i loro manager.
«Questo perché rappresentano una lobby e perché questi manager non ge­stiscono più solo la loro squadra, ma anche la vita dei corridori che a questo punto non contano più nulla. Nel 1989 o nel 1990, ci siamo battuti contro l’obbligo di indossare il casco e una disposizione dell’UCI. Alla Tirre­no-Adriatico, Moreno Argentin era il nostro rappresentnte. In Francia c’era­no Fignon e Madiot. La sera si sentirono al telefono, il giorno dopo ci to­gliem­mo il casco. Oggi nessun corridore oserebbe dire qualcosa contro l’Uci o contro la sua professione, se non Ni­ba­li che ha reagito, glielo riconosco, alle accuse di Torri. Gli ha detto: “Ven­ga a controllarmi, io sono pulito. Non siamo tutti come ha detto lei!” Vin­cen­zo almeno ha avuto il coraggio di espor­si. In Italia puntiamo molto su di lui per rinnovare il ciclismo».
Intanto, però, è arrivato il caso Contador ad avallare le parole di Torri
«Spero che Contador riesca a dimostrare la sua lealtà, altrimenti sarebbe una grande delusione. I casi di Riccò e Di Luca riguardano piccoli motori che cercano di migliorare la loro cilindrata. Riccò non è Pantani. Ma Contador è di un altro calibro».
Come esserne sicuri? Come credere che Alberto abbia potuto essere l’allievo di Manolo Saiz - alla Once e alla Liberty Seguros -, che abbia potuto battere Riccò al Giro e Rasmussen al Tour, nomi che hanno fatto ricorso al doping, senza essere lui stesso “addizionato”?
«(Risponde imbarazzato, ndr) Io non sono sicuro di niente e naturalmente par­to da un presupposto. Ma io ci vo­glio credere. Sì, credere che abbia un valore atletico più elevato dei suoi rivali, tanto in montagna quanto nelle cro­no. Pedalerà a pane e acqua? Chia­ra­mente non lo so. Io sottolineo solo che nel 2010 non ha mai raggiunto i picchi di condizione del 2009, anno nel quale ha dovuto sopportare anche lo stress della convivenza con Armstrong. E poi, non ha strutture attorno a lui. Gestisce la sua carriera e i suoi contratti in maniera artigianale con suo fratello, come se in una stessa famiglia possano nascere insieme un grande corridore e un grande manager».
Gli organizzatori impongono le loro scelte an­che sui corridori coinvolti in casi di do­ping: dicono sì a Basso e Vinokourov, di­cono no a Riccò. Tutto questo sembra arbitrario.
«È ingiusto, lo confermo. Riaprono le porte a tutti quelli che militano in squadre che stanno a cuore all’Uci. E non è stato il caso della Flaminia per la quale correva Riccò».
Nella storia del ciclismo e del doping, i corridori non hanno saputo sempre difendere la loro causa, ripenso al blitz di San­re­mo nel 2001, con l’irruzione di 240 carabinieri negli hotel del Giro. I corridori non avrebbero dovuto ribellarsi quel giorno e rifiutarsi di proseguire la corsa?
«Eravamo una trentina a discutere nel salone di un albergo. Pantani voleva fermare il Giro. Era lui che dirigeva il dibattito, ma aveva già altri problemi, non era sufficientemente sereno per prendere una decisione. Dopodiché, il movimento si è disgregato».
Accettando di ripartire, avete accettato im­plicitamente che vi si potesse trattare co­me volgari delinquenti.
«Non eravamo sicuri di niente. I carabinieri avevano sequestrato qualcosa a Padrnos e Di Grande. Ci siamo spaventati. E se avessero messo cinquanta corridori sotto inchiesta? E se quaranta corridori fossero stati trovati con prodotti proibiti nelle loro valigie? Ci avrebbero accusati di complicità con i trafficanti».
Ma in definitiva ci fu tanto rumore per nulla...
«In Italia basta che un giudice indaghi su un traffico di prodotti dopanti perché sia proiettato in prima pagina sui giornali, con una notorietà che non po­trebbe avere altrimenti. Il problema è che il ciclismo non è un’arma politica nelle mani di chi conta, come avviene per il calcio. Altrimenti ne trarremmo ben altri benefici».
In concreto...
«A Sanremo, nessuno dei 240 carabinieri sapeva quel che doveva cercare. Non avevano alcuna competenza specifica in campo farmaceutico. Dopo il loro intervento, ci sono stati numerosi altri rami d’inchiesta, interrogatori, perquisizioni, una mole enorme di la­voro per arrivare a dire, alla fine di un processo, “non abbiamo trovato niente”. O talmente poco che non vale la pena di parlarne. Due o tre corridori sono stati sospesi, ma erano figure di terzo livello. Ma chi ha pagato, se non i contribuenti italiani? Perché nessuno ha mai considerato quanto è costata quella operazione? Se il ciclismo avesse un vero impatto politico, la sinistra avrebbe accusato un giudice di destra, o viceversa, di aver condotto un’in­chie­sta dispendiosa, di aver sprecato chissà, due o tre milioni di euro di soldi pubblici. Se le inchieste sul ciclismo proliferano nel nostro Paese, è perché il nostro sport non suscita alcun interesse politico. Di contro, i corridori de­vono accettare di essere controllati a ca­sa loro, giorno e notte, a dispetto della loro vita privata. E in barba a qualsiasi diritto civile. Ci manca ormai solo il braccialetto elettronico, ma presto ci arriveremo. Di solito, la politica ha il controllo su tutto, ma nel ciclismo è l’Uci che comanda. Ma perché l’Uci è più importante in Italia del governo e della politica?».

da tuttoBICI di gennaio a firma di Philippe Brunel

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COMMENTI
Cipollini
29 gennaio 2011 12:37 gass53
Ecco uno che ha le Pal.e veramente.
Non per niente si chiama Mario Cipollini.

grazie
29 gennaio 2011 15:32 luca65
....Chapeau come direbbe il mitico Adriano, SuperMario sempre sul pezzo.....

RE LEONE
29 gennaio 2011 18:55 stargate
Re Leone, anche senza il codino, ruggisce sempre. Oltre che grande esperienza, mostra passione, con giudizi anche ruvidi, ma chiari. Forse un po' severo con Contador che, se è vero che non trasmette le stesse sensazioni di Merckx, ne trasmette di altro tipo. Volto anonimo a parte, piace, perlomeno a me, la sua facilità di pedalata nel fuori sella, quando pare gocare con la bici. Quanto all'eccessivo bon ton attuale, come dargli torto? Il Tour 2010 sembrava il ballo delle debuttanti...

pane al pane...
29 gennaio 2011 19:01 lupin3
ottimi Cipollini e Brunel

SuperMario
29 gennaio 2011 22:04 rufus
Grande SuperMario, autentico mattatore del pedale, anche giù dalla bicicletta. Parole sante le sue, che condivido in pieno. Duro ma onesto.
Flavio Gibertoni

...Più o meno è così.
30 gennaio 2011 08:42 lorianoclubbasso
Cipollini bravo!...Brunel grande e saggio!!


loriano Gragnoli

ma...
30 gennaio 2011 15:48 limatore
non è criticando tutti che si piò creare qualcosa di nuovo, e il Cav. Cipollini si diletta a fare questo. Confrontarsi discutere e proporre.....

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