«Il Giornale». Tappa di trasferimento. All'ospedale

| 10/05/2010 | 16:01
Caro diario, marea umana a bordo strada, pelle umana sul fondo stradale. La prima tappa in linea del Giro d’Olanda, versione export del Giro d’Italia, è tutta qui, in questo contrasto tra gioia e dolore che è l’essenza stessa del ciclismo.
Meglio appuntarsi prima il lato gradevole della giornata. Non esagero: c’è tutto un Paese che esce di casa e si riversa lungo il percorso per acclamare i ciclisti, al dolce sapore di festa nazionale. Non ci sono più dubbi: l’operazione Olanda va archiviata come successo grandioso.
Per contrasto, questo clima da sagra globale fa da cornice alla tappa più sinistrata e angosciante che si ricordi, almeno in epoche contemporanee. Di cadute nelle corse se ne sono sempre viste: ma in tale quantità e in tale concentrazione, sinceramente no. Da Amsterdam ad Utrecht, inesorabilmente piattona dall’inizio alla fine, è tappa di trasferimento: al più vicino pronto soccorso. In un certo senso, si gioca a bowling: una curva e giù birilli, uno spartitraffico e giù birilli, un rettilineo e giù birilli. Ci sono davvero tantissime cause, in questa ecatombe cosmica. Ci sono le strade strette e ventose dei luoghi (però ammettiamolo: l’Olanda è così da secoli, non l’ha disegnata il patron Zomegnan), c’è questa manìa regolamentare degli amministratori locali (che sta contagiando anche i nostri), con una rotonda e un dosso ogni cinquanta metri, e c’è anche il parossismo d’inizio gara che innegabilmente agita il gruppo (lo dimostrano le cataste anche nei rettilinei più innocui).
La convergenza di tutte queste fatalità, che nessuno stratega di reality riuscirebbe mai a costruire artificialmente a tavolino, consegna agli archivi un risultato più pesante di tante tappe alpine. C’è gente come Cunego e Pozzovivo, mannaggia a noi sempre italiani, ma anche come la maglia rosa Wiggins e come lo spagnolo Sastre, che lascia sull’asfalto strati di cute e cocci di classifica (oltre mezzo minuto nella prima tappa non sono noccioline). Poi sai com’è: per qualcuno che piange, c’è sempre chi ride. Immancabilmente, ridono in inglese. Vittoria di tappa all’americano Farrar, che umilia l’incerto Petacchi, maglia rosa all’australiano Cadel Evans: tutto così straniero, tutto così anglosassone. Con una sensazione ancora più incombente: bisognerà pure farci l’abitudine. La marea anglosassone è fortissima per investimenti finanziari e per talento dei suoi atleti. E’ il nuovo che avanza. E in fondo neppure così tanto nuovo: la bicicletta è un virus che da diversi anni ha ormai contaminato il pianeta british, allargando a macchia d’olio i suoi effetti sociali e sportivi.
Di sicuro, questa brava gente ci sta prendendo maledettamente gusto. Dopo Wiggins, vincitore nella cronoinaugurazione, anche Farrar spende parole incantate sui trionfi rosa: “Vincere qui è grandioso. Il Giro è davvero una corsa speciale, più difficile del Tour. Sognavo una tappa, è già arrivata. Allora proverò a farne una collezione”. Quanto a Evans, conferma il suo pensiero fisso: “La maglia rosa arriva prestissimo, ma non diventerà un’ossessione: già domani i velocisti possono portarmela via. A me interessa l’ultima, quella di Verona: sono anni che inseguo un grande Giro, è il momento di prendermelo…”.
Qui fanno festa gli olandesi per lo spettacolo d’importazione, qui fanno festa americani, inglesi e australiani per le vittorie, qui gli unici che non fanno festa siamo proprio noi italiani. E’ solo l’inizio, non sembra il caso di farci già prendere dal panico, ma di sicuro ci aspetta un Giro durissimo. Se è vero che noi tiriamo fuori il meglio proprio quando siamo immersi nelle difficoltà, questo è il momento. Almeno, sforziamoci di vedere il bicchiere mezzo pieno. Se non altro, abbiamo la coppia Basso-Nibali praticamente incolume: sia di ossa, sia di classifica. In questo marasma d’avvio, non è poco.
Caro diario, non possiamo chiudere senza rivolgere un pensiero solidale al nostro Mauro Facci. La sua disavventura può davvero rappresentare la grande metafora del momento italiano. In fuga da molto lontano con altri tre temerari, a una trentina di chilometri avverte irresistibili e infingardi dolori di ventre. I diesse gli chiedono di resistere, ma in certe fasi si può resistere a tutto, al vento d’Olanda, agli spartitraffico, alle strettorie assassine, agli scatti degli avversari, al freddo, alla fame e alla sete, ma non a certi richiami ancestrali. Dopo coraggiosa e tenace resistenza, il valoroso Facci deve desistere e rassegnarsi. Imboccata la prima laterale, raggiunge il primo cespuglio appartato e finalmente si libera della sua angoscia. Non sarà l’epilogo trionfale che sognava, ha piuttosto le sembianze di un finale umiliante, ma ci sono giornate nella vita in cui è meglio diventare realisti e stabilire delle priorità. Dopo, la vita ricomicia a sorridere.

da Il Giornale del 10 maggio
a firma di Cristiano Gatti
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