Il Messaggero. Il ciclismo è un po' più povero

| 08/02/2010 | 10:17
Quando, nella primavera del 2001, concluse la sua ultima Parigi-Roubaix al trentaduesimo posto, il pubblico del velodromo francese lo salutò con un lungo applauso, come fosse il vincitore. E lui, Franco Ballerini, il ”re del pavè”, ringraziò tutti mostrando la maglietta con la scritta “Merci Roubaix”. Da ciclista aveva costruito la sua carriera e la sua fama correndo da protagonista la più massacrante delle classiche, che disputò 13 volte, vincendola nel 1995 e nel 1998. I francesi lo amavano per quel carattere tenace, sempre battagliero, mai riluttante alla fatica, alla sofferenza. Ballerini era più conosciuto e apprezzato in Francia che in Italia, proprio per quel modo tutto personale di interpretare la più difficile delle corse in linee. Usciva dalla Foresta di Aremberg come un guerriero spartano, sempre pronto a sferrare l’assalto decisivo sugli acciottolati che rendono terribile e inimitabile la Roubaix. Nel finale lui c’era sempre a giocarsi il successo. Nel suo palmares figurano anche una Parigi-Bruxelles, una tappa al Giro e una Tre Valli Varesine. Aveva un problema, che ne ha condizionato la professione. Soffriva di una grave forma di allergia che, nei mesi primaverili, gli impediva di esprimersi al massimo nelle corse a tappe. Anche per questo motivo prese parte soltanto a 5 Giri d’Italia.
La rinuncia di Giuseppe Saronni gli regalò la grande chance di scendere dalla bicicletta per salire, appena 3 mesi dopo, sull’ammiraglia dell’Italia. La svolta della vita. Nel 2001, sponsorizzato dallo storico ct, Alfredo Martini, che lo considerava alla stregua di un figlio, Ballerini divenne commissario tecnico a soli 37 anni. Sceglieva il ciclista sul quale puntare e, attorno a questo progetto, spesso vincente, costruiva la squadra, l’unica nazionale insieme soltanto per una giornata all’anno. Un’avventura esaltante e costellata di successi: ben 4 Mondiali (Cipollini, Bettini 2 volte, Ballan: 3 titoli consecutivi) e una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atene, ancora con Paolo Bettini, suo grande amico. All’ultimo Mondiale di Mendrisio ha voluto al suo fianco proprio Bettini per cementare quel rapporto, fra tecnico e ciclisti, che Ballerini ha sempre curato con particolare attenzione. Dei corridori ha saputo interpretare gli umori, le sensazioni e le difficoltà di coesistenza. Ma, con abilità e tatto, ne ha smussato comunque gli angoli, parlando sempre con chiarezza a tutti e costruendo una squadra compatta. E tutti gli hanno sempre garantito il massimo in nome della maglia azzurra.
Sposato con 2 figli, amava la caccia e gli amici, era sorridente, affabile, disponibile. Da un paio d’anni aveva scoperto la passione per i motori perché, da ex atleta, gli piacevano ancora l’agonismo, le sfide, le avventure. L’esordio su un’auto da rally risale al 2009, quella passione che l’ha portato alla morte. Tifoso dell’Inter, ne seguiva spesso le vicende con grande partecipazione, lo sport era comunque il suo mondo quotidiano. Sapeva e studiava di ciclismo e, nel mese scorso, aveva già compiuto una ricognizione sul percorso del prossimo campionato del mondo, quello che si correrà a Melbourne il 3 ottobre. Lo aveva voluto visionare in anticipo per cominciare la preparazione del piano azzurro. Era meticoloso e attento e voleva vincere ancora, com’era nel suo carattere. Ad aprile, gli organizzatori della Roubaix, lo ricorderanno come un “grande”: questo significa che Franco Ballerini ha lasciato anche un segno profondo come atleta, oltre che un vuoto incolmabile in tutto il mondo del ciclismo.

da «Il Messaggero» dell'8 febbraio 2010
a firma Gabriele De Bari

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