Il Corriere della Sera. L'Italia del pedale perde la guida

| 08/02/2010 | 10:14
A testa bassa sulle pietre, con il fango che ti entra in gola, forse quel pensiero almeno per un attimo ti attraversa la mente: la strada è una bestia che ho imparato a domare, oggi e per sempre. Ma la strada di Franco Ballerini aveva una curva più lunga del suo destino e si è ripresa in un attimo maledetto tutto quello che gli aveva dato, lasciando il ciclismo italiano senza punti di riferimento, come in un’altra straniante domenica di febbraio, nel 2004, quando morì Marco Pantani.
Prima di diventare un tecnico vincente e innovatore, il «Ballero» impara a danzare di gioia (e di rabbia) sul pavé sconnesso della Parigi-Roubaix, la sua corsa: nel ’94, dopo la famosa beffa del francese Duclos Lassalle, piange e ripete meccanicamente «io ho chiuso, smetto qui». Nel ’95 e nel ’98 le pietre però si rivelano più dolci e lo lanciano nel club ristretto dei grandi. Nel 2001 chiude la carriera proprio nel velodromo, incrostato di fango dalla testa ai piedi, al trentaduesimo posto. Si apre la maglia e mostra bene la scritta «Merci Roubaix», con il pubblico in piedi ad applaudire: l’espressione mentre taglia l’ultimo traguardo è quella di un uomo in pace con se stesso. Uno che sulla strada si sente a casa.
Da cittì, Ballerini lastrica d’oro il cammino del nostro ciclismo. Nasce come tecnico ragazzino, a 36 anni sulla «panchina» della nazionale a Lisbona 2001: fa i conti con un argento (Bettini) e mille incomprensioni che gli schiariscono le idee. Da lì in poi, la sua sarà la Squadra con la esse maiuscola ed è l’inizio di un percorso che è già storia: Mario Cipollini campione del mondo a Zolder 2002, Paolo Bettini olimpionico sulla collina del Licabetto ad Atene 2004, ancora il Grillo, due volte iridato a Salisburgo 2006 e Stoccarda 2007. L’ultimo capolavoro è il trionfo di Ale Ballan, un ragazzone delle pietre come lui, a Varese nel 2008: forse la migliore interpretazione dall’ammiraglia del c.t diventato Re Mida, e non più solo «Basettoni», come lo chiamava qualcuno per le sue leggendarie basette.
Lui, che non alzava mai la voce ma era rispettato da tutti, aveva una gestione del ruolo che lo avrebbe portato ad altre vittorie, almeno fino a Londra 2012, quando aveva in mente di lasciare: magari proprio a Bettini che ora è uno dei principali candidati alla successione, assieme a Davide Cassani e Maurizio Fondriest.
La capacità di ascoltare tutti, per primo il suo padre putativo Alfredo Martini, per poi decidere solo con la propria testa, era la cifra stilistica del «Ballero» in versione cittì. Intelligente, furbo come solo un ciclista toscano può essere, ma anche uomo di mondo, capace di tessere buoni rapporti con tutti, in un ambiente non semplice da tenere in pugno, tra invidie, colpi bassi e scandali: se c’era una cosa che ultimamente lo aveva fatto arrabbiare spesso erano i clamorosi casi di doping, da Riccò a Di Luca, passando per Rebellin che a Pechino gli aveva regalato un argento che poi si è rivelato falso.
I corridori, anche quelli delusi dalle sue esclusioni, lo hanno sempre considerato uno di loro. E il «Ballero», che si è giocato la faccia, se non il posto, una volta all’anno, non ha mai perso di vista i suoi cavalli. Sabato era a Donoratico per la prima piccola classica stagionale: quel Petacchi che a 36 anni non sbaglia un colpo sarebbe stato uno dei suoi uomini per il prossimo Mondiale, a Melbourne in Australia. La strada di Ballerini non arriverà fino a lì, ma quello che ha seminato resta, va difeso e preservato: come un fiore tra le pietre.

da «Il Corriere della Sera» a firma Paolo Tomaselli
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