La Repubblica. In ricordo di un campione

| 08/02/2010 | 09:52

Quel primissimo pomeriggio del ’95 Franco Ballerini era appena sceso dal podio del mitico Velodromo di Roubaix. Tenta e ritenta, aveva realizzato finalmente il suo sogno: vincere una Parigi-Roubaix. La sua prima, dopo il boccone amaro della beffa al fotofinish, di due stagioni avanti, “bruciato” dall’ “enfant du pays”, quel Duclos Lassalle che sfruttando il suo lavoro e la sua generosità lo aveva poi preceduto di un’inezia sul traguardo. Aveva vinto con autorità, in solitario: allungo imperioso a 32 chilometri dal traguardo. Alla sua maniera: di forza e potenza, volando senza sforzo apparente le aride pietre della “Reine”, la regina delle classiche. Da passista robusto, piazzato e testardo, maestro in quello splendido gesto tecnico che consiste nel “galleggiare” sul pavé della storia a oltre 45 di media. Si fermò un attimo, appena lasciata la folla trionfante, e mi mostrò le mani. Erano rosse e piagate dalle lunghe ore di scossoni e rimbalzi: “Vedi – disse sorridendo - puoi dire o scrivere quello che vuoi sui guai di questo ciclismo, ma alla fine vedi cosa ci vuole anche per vincere?”. Erano gli anni di un ciclismo già discusso e il “Ballero” era perfettamente consapevole delle contraddizioni della realtà in cui era immerso, ma anche del grande amore e dedizione che questo bistrattato sport dei pedali richiede comunque. A chi lo pratica e a chi lo ama. E lui lo amava veramente. “Mi piace tutto della Parigi-Roubaix – diceva – l’atmosfera, la gente, la sua polvere le sue pietre perché quando entri solo nel velodromo ti sembra di volare; senti come qualcosa di magico dentro di te”. Già, una scossa pazzesca di adrenalina, come quella che poi probabilmente andava cercando nei rally, una volta sceso di bici. La magia di un ciclismo forse non limpidissimo, ma bello perché umanissimo e severo. E il ciclismo non poteva non amarlo. Al di là del suo palmares scarno, ma di grande qualità tutto centrato sulle due “Roubaix” (’95 e ’98); oltre un secondo un terzo, un quinto e un sesto posto, a significare il feeling assoluto con questa corsa da altri odiata e fuggita come la peste. In quegli anni Franco a primavera usciva dal letargo dell’interesse dei media per diventare il nostro “uomo-Roubaix”. Con lui rivivevano idealmente i fasti dei vari Coppi, Bevilacqua, Gimondi, Moser (tre vittorie di seguito: ’78, ’79, 80). Amato, amatissimo, perché la gente – e non solo quella del’ambiente dei pedali - percepisce a pelle il costo in termini di fatica e sofferenza di certe vittorie. Fatte le dovute proporzioni, la stessa dura sofferenza dell’uomo di tutti i giorni. Della vita di tutti i giorni.


Anche se poi Ballerini ha vinto pure una Tre Valli Varesine, una Parigi-Bruxelles, una tappa del Giro, aveva conquistato il cuore della gente con la generosità del gregario. Forte, fortissimo; gregario “di lusso” si direbbe oggi, ma pur sempre un po’ in ombra tranne che nei magici giorni della Roubax. Per questo alla sua ultima partecipazione approdando lontano dai primi al mitico velodromo, scoprì sotto la divisa una maglietta con su scritto “Grazie Roubax”. Il popolo del ciclismo ama i gregari e lui per anni si era votato a capitani come Chioccioli (il popolare “Coppino”, vincitore del Giro ’91), Saronni, Fondriest, il belga Museeuw, una sorta di dio in terra dalle sue parti, dominatore di Fiandre (3 volte) e Roubax  (2002) e poi un certo Bugno, due volte iridato.
E’ allora che Franco a cominciato a costruire il suo “dopo” da ct azzurro, iniziato appena sceso di bici nel 2001. Nell’affetto del suo padre putativo, Alfredo Martini il ct storico del ciclismo nostrano, che da presidente onorario della Federciclismo lo volle in quel ruolo dopo la gestione Fusi; nella stima e comprensione dei suoi ex compagni di sudore e fatica. Ci fu un solo momento di disorientamento, quando i nostri si fecero la guerra in quel del mondiale di Lisbona, sua prima esperienza in panchina (l’ormai celebre “tradimento” di Lanfranchi) e Bettini finì secondo battuto dallo spagnolo Freire, astro nascente.


Da allora scattò qualcosa in Ballerini e nella sua nazionale. Qualcosa che lui sapeva infondere e che trasformava per un giorno atleti avversari e rivali agguerriti in amici, colleghi altruisti e disciplinati. Il “miracolo” di Ballerini era proprio questo: lui sapeva toccare le corde giuste di atleti che solo qualche stagione prima erano corridori al suo fanco. Si fidava di loro e loro si fidavano di lui. Così sono arrivati i 4 successi iridati: Cipollini nel 2001, due volte Bettini (2006 e 2007), Ballan, solo due stagioni fa. E il titolo olimpico (Bettini 2004, nella foto accanto di due sul podio di Atene).  

Incredulità, dolore, sgomento: la tremenda notizia della morte di Franco Ballerini, direttore tecnico della Nazionale azzurra, ha scosso come una folgore il mondo dello sport italiano. L'incidente fatale è avvenuto nella zona di Larciano durante un rally al quale Ballerini stava partecipando come navigatore del pilota toscano Alessandro Ciardi. L'auto è uscita di strada. Nonostante l'immediato trasporto in ospedale il ct azzurro del pedale è spirato senza riprendere conoscenza.

"Franco era una persona straordinaria sotto tutti gli aspetti: non era solo un grande ct, era anche un grande amico. E questo non sempre succede tra dirigenti e tecnici". Il presidente del Coni, Gianni Petrucci, ricorda così il ct, interpretando lo sgomento di tutto il mondo dello sport, che "piange ora una grande persona. Di lui ho tanti ricordi, ma un'immagine adesso mi torna incessantemente agli occhi: io che alle Olimpiadi di Atene vengo lanciato in aria da Ballerini dopo la vittoria di Bettini, nel primo giorno di gara dei Giochi". Una perdita che si farà sentire, umanamente ma anche tecnicamente, e che si aggiunge ad un periodo davvero nero per i ct, visto le recenti morti di Carlo Carnevali (scherma, spada) ed Alberto Castagnetti (nuoto), altri coach vincenti che ci hanno lasciato troppo presto. A prendere il posto del 'Ballero' potrebbe essere proprio Bettini, nel segno di una continuità di cui il ciclismo italiano ha decisamente bisogno.

da «La Repubblica» del 8 febbraio 2010

a firma Eugenio Capodacqua

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