Non era un corridore né un direttore sportivo, non era un meccanico né un massaggiatore, ma era tutto questo e molto di più: perché lui, il ciclismo, lo leggeva. Articoli e libri, perfino i miei, nonché radio e tv, che è un’altra forma di lettura, ascoltando e guardando, misurando le parole e calibrando le immagini. E chi legge il ciclismo non è solo un corridore in bici né un direttore sportivo sull’ammiraglia, non è solo un meccanico che la prima cosa che fa è pulire il telaio né un massaggiatore che comincia dalle dita dei piedi e risale fino alla nuca, ma è uno che impara e studia, ricorda e collega, fantastica e ritrova. Uno che legge il ciclismo appartiene a un’immensa famiglia, e ne è consapevole. Uno che legge il ciclismo sa chi è Pogacar ma anche Pasqualon, sa chi era Bitossi ma anche Spinelli. Uno che legge il ciclismo utilizza una grammatica comunitaria e frequenta una mappa sentimentale.
Nome e cognome, Roberto Sesena, Robi. Milanese, infine abitava ad Anzio. Il suo sport era il rugby, trequarti data la base per altezza, ma leggeva e sapeva anche di ciclismo, perché – si sa – rugby e ciclismo in fondo si assomigliano, soprattutto nel ciclocross. Robi è morto l’altra notte, quella tra il 27 e il 28 dicembre, sfinito dal cancro, dopo aver lottato anche nei tempi supplementari che, in queste circostanze, equivalgono a un supplizio. Chi lo conosceva, lo piange e già lo rimpiange. E la morte, per quanto annunciata, appare sempre improvvisa. E ingiusta. Anche all’ultimo chilometro, era lui che rassicurava tutti, sto bene, ripeteva. E lo ripeteva anche quando il tumore gli aveva cancellato la voce. Robi era generoso, ottimista, accogliente. Tantissimo.
Quando se ne va un lettore di ciclismo, è un lutto per tutti. Perché il ciclismo è uno sport che unisce, e mai divide. Perché il ciclismo è uno sport che ricorda, e mai trascura. Perché il ciclismo (proprio come il rugby) è uno sport dove più ci si sporca (il corpo), più ci si pulisce (l’anima). Perché il ciclismo è uno sport che molto regala alla letteratura. Perché il ciclismo è uno sport che per essere poesia non ha bisogno di versi o rime. Perché il ciclismo è uno sport che – ma sì, dai! – una bicicletta nella vita l’abbiamo avuta tutti. E forse il ciclismo non è neppure uno sport, ma molto di più. Però il ciclismo è uno sport che, quando leggi una cronaca, un’intervista, un ritratto, un viaggio, un’impresa, fosse anche quella di andare a pedali al lavoro tutti i giorni, regala una leggerezza, come se le ruote si fossero trasformate in ali.
Robi deve avere già sostituito le ruote in ali. E, lo vedo, sta finalmente pedalando: vola. Magari per andare a giocare a rugby. L’aldilà me lo immagino come un enorme centro sportivo. Voi?
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.