
Il ciclismo si prepara, suo malgrado, a tornare nelle aule dei tribunali: la Procura di Pistoia, infatti, ha chiuso le indagini che per oltre tre anni hanno messo al centro dell'attenzione il team ciclistico professionistico Vini Zabù. A conclusione dell'inchiesta, decisamente complessa, affidata al Nas dei carabinieri di Firenze è stata fissata l'udienza preliminare che si svolgerà lunedì 29 settembre al Tribunale di Pistoia.
Le indagini sono iniziate nel marzo del 2021, poche settimane dopo la positività del corridore Matteo De Bonis ad un controllo antidoping fuori competizione eseguito dall’Agenzia italiana per conto dell’Uci.
Mentre la giustizia sportiva ha sanzionato il corridore con tre anni di squalifica e il team con 30 giorni di sospensione perché si trattava del secondo caso di positività in poche settimane, l'indagine giudiziaria ha dato il via ad una operazione più ampia che ha coinvolto anche il team manager Angelo Citracca e il direttore sportivo Luca Scinto, entrambi finiti sotto inchiesta. Per De Bonis l’accusa principale è quella di utilizzo di sostanze dopanti; per Citracca e Scinto le ipotesi di reato riguardano il favoreggiamento e la gestione di pratiche legate al doping, oltre alle condotte riconducibili al cosiddetto “paga-per-correre”.
Ma non è tutto qui, perché nelle settimane successive i carabinieri hanno ricevuto un report riservato dall’agenzia antidoping svizzera, la Stiftung Antidoping Schweiz, nato dalle denunce arrivate attraverso la piattaforma di whistleblowing: le segnalazioni in questione parlavano non solo di sostanze proibite, ma anche di un sistema fatto di pressioni psicologiche, vessazioni e richieste economiche indebite agli atleti.
Le testimonianze raccolte hanno trovato conferma durante le indagini: è emerso un meccanismo organizzato per reclutare corridori rimasti senza contratto o con un livello tecnico ritenuto insufficiente. Gli atleti venivano tesserati tramite una società di comodo con sede in Irlanda, ma soltanto a condizione che anticipassero somme di denaro o si impegnassero a restituire parte degli stipendi. In alcuni casi, come si legge nelle carte, agli atleti era stata consegnata, sempre a pagamento, una licenza professionistica ottenuta con metodi corruttivi da federazioni estere compiacenti, simulando trasferimenti di residenza mai realmente avvenuti.
Dalle carte emerge con chiarezza come il “paga-per-correre” non fosse un episodio isolato, ma un sistema pensato per alimentare due derive parallele: da un lato l’ingresso nel professionismo di atleti privi delle qualità necessarie, costretti poi a ricorrere al doping per reggere il livello competitivo; dall’altro il cosiddetto “doping finanziario”, con società che, pur senza le risorse per ingaggi reali, riuscivano a garantirsi visibilità e accesso alle sponsorizzazioni. Fondamentale, nel corso delle indagini, la collaborazione offerta dall’Unione Ciclistica Internazionale, che ha messo a disposizione dati e riscontri per ricostruire la vicenda.
Sono dieci in tutto le persone per le quali la Procura ha esercitato l’azione penale: sette atleti e un direttore sportivo per le accuse legate al doping, tre soggetti per il reato di estorsione in concorso connesso al “paga-per-correre”.