
Tra le tante verità emerse dall’ultimo Giro – partire dall’Albania è un ottimo affare ma un triste spettacolo, la filosofia dei punti ormai ha stravolto l’idea fondante del ciclismo di correre solo per la vittoria, un tracciato con due settimane e mezza di facilità e tre tapponi micidiali è quanto meno sbilanciato, il Giro oltre che perdere campioni, prestigio, rispetto sta perdendo anche pubblico per le strade – oltre a questi verdetti ce n’è uno che quanto meno consola: per le grandi corse a tappe non siamo proprio a zero, abbiamo Giulio Pellizzari.
Ovviamente siamo agli albori. Ai segnali. Ma nessuno può negare che usciamo dal Giro meglio di come ci siamo entrati. Cioè: siamo entrati con Ciccone e Tiberi, il primo ancora una volta impallinato dalla sfortuna e il secondo ancora una volta da rivedere. Incatenato inizialmente al ruolo di badante per Roglic, secondo i patti sottoscritti e dunque immodificabili, il nostro baby ha comunque trovato il modo di imporsi. Il più delle volte, ha dato la chiara sensazione d’essere persino meglio del suo assistito, benchè abbia sempre svolto con lealtà il proprio compito, senza cercare furbate e vigliaccate (valore aggiunto). Poi, una volta liberato dal ritiro del capitano, ha fatto qualcosa di suo. La pedalata e l’intelligenza, quelle nessuno ha potuto soffocarle, né prima né dopo: Pellizzari è grintoso, agile, sveglio. Naturalmente è all’inizio dell’opera, ha ancora molto da fare e da imparare, ma sul suo livello ci si può sbilanciare. Non è un qualunque. Già da ora ci regala una fantasia, una speranza, un futuro. Ne abbiamo disperato bisogno, come minimo bisogna crederci.
Per inciso, pensando a Pellizzari mi viene naturale ricordare come la sua parabola di crescita sia una risposta precisa a quelli che ultimamente chiedono sprezzanti a cosa servano le squadrette. A questo, ai Pellizzari, e prima ai Ciccone, servono le squadrette. L’uno e l’altro sono cresciuti e sbocciati nella premiata ditta Reverberi, che magari deve sempre pendere dalle labbra del Giro per avere un invito, ma che sostanzialmente ha fornito al movimento italiano due delle pochissime pedine presentabili ai massimi livelli. Dice il saccente: i Ciccone e i Pellizzari sboccerebbero lo stesso anche nel grande team. Può essere, ma non ne sono sicuro. Senza gavetta e marciapiede, senza bottega e apprendistato, in qualunque mestiere manca qualcosa. A meno che non ti chiami Pogacar, per cui pensa a tutto madre natura.
Dove possa arrivare, cosa possa fare Pellizzari ovviamente nessuno lo sa. Sarebbe stupido qui venderlo come la risposta italiana a Pogacar Vingegaard Evenepoel, manca ancora troppo. Però Pellizzari è la nostra consolazione e il nostro salvagente, perché almeno ci permette di sperare e immaginare, già molto nell’epoca della grande depressione.
Purtroppo, da come si sono messe le cose, non è più possibile scomodare l’armamentario classico che ha sempre accompagnato i giovani. Il kit delle prudenze e delle reticenze è obsoleto, messo fuoriuso dalla rivoluzione verdissima della nuova era, basata tutta proprio sull’età bambina. I Pogacar, gli Evenepoel, i Del Toro, tutta questa bella gente a 21 anni - l’età di Pellizzari - sembra già babbiona, a livello di forza, coraggio, lucidità, personalità. Pellizzari appare più in ritardo, il che suona a bestemmia, ma così stanno le cose. Resta però inteso che tutta una vita davanti ce l’abbia ancora, a pieno titolo, per cui nessuna ansia e nessuna fregola. Diciamo che sta finendo gli studi, che ha preso la maturità e adesso può andare ben preparato all’università. L’aspettano professori bastardamente severi, ma ha tutte le qualità per superare gli esami senza uscire fuoricorso. A certi livelli non sono previste ripetizioni e corsi di recupero. Basta solo che la sua squadra lo assista con la borsa di studio migliore: la libertà di provare, rischiare, soprattutto sbagliare.
da tuttoBICI di giugno