
Passo la mattinata alla partenza ascoltando tecnici sicurissimi: occhio a Roglic, finora ha corso bene, si è nascosto, non ha sprecato niente, lui aspetta le tappe vere e poi affonda i colpi. Gliene basta uno solo, la bastonata definitiva, e si porta a casa il Giro.
Sono sul traguardo qualche ora dopo: Roglic arriva con occhi da cocker preso a calci, quel che resta di lui è salvato dal nostro Del Toro, al secolo Giulio Pellizzari da San Severino (stessa età, destino opposto: il primo può giocarsi liberamente il proprio Giro, il nostro deve sacrificare il suo per fare da badante al capitano in declino).
Tutto questo per dire cosa: fare previsioni in questo Giro, ma in fondo sempre e dappertutto, è molto difficile. Ci sta tutto. Prudenza vorrebbe non spacciare le proprie opinioni come certezze, ma questa è una prudenza non tanto diffusa. Resta la morale: dire che il ragazzino in rosa può arrivare in rosa fino a Roma non è poi una bestemmia.
Sempre gli espertoni avvertono che è giovanissimo, che l'ultima settimana è terribile, che la musica cambia e un leader così giovane può tradire limiti di fondo, di resistenza, di tenuta, prima ancora mentale.
Qui la riporto, ma nemmeno mi sogno di condividerla. In questa epoca meravigliosa troppe volte ormai abbiamo visto i ragazzini scaravoltare i dogmi degli esperti, con il loro coraggio, la loro forza, il loro talento e ci aggiungerei soprattutto la loro personalità. Questo Del Toro piace sempre di più, convince sempre di più. Secondo me, anche più del suo “capitano” Ayuso.
Nella più bella tappa di montagna fin qui affrontata – la prima, l'unica – il leader bambino sfodera ancora una volta una sicurezza e una tranquillità entusiasmanti. E' finalmente la giornata del Viva la Fuga, davanti vanno via i cacciatori di tappe (grandioso questo Verona, è un Veneto intero), dietro nel Giro della classifica attaccano i Bernal e i Carapaz, parte male Tiberi saccagnato dalla caduta di Gorizia ma poi si riprende come dio comanda, va subito in deficit il quotatone Roglic, e allora là davanti Del Toro organizza le danze a proprio piacimento, prima tamponando personalmente gli affondi dei Bernal e dei Carapaz, quindi avviando la caccia grossa a Roglic, nel finale sfruttando la collaborazione degli avversari, un nuovo partito dei volonterosi per far fuori il favorito in crisi.
E' una bella giornata di Giro vero, da fare il paio con le Strade Bianche: stavolta però i risultati non li decidono le cadute, ma le sberle a mani nude che si rifilano i signori della classifica. Su tutti, voglio e devo elevare due ragazzini, uno di 21 anni in maglia rosa, l'altro che va per i 38, l'intramontabile e immarcescibile Damiano Caruso. Vederli pedalare là davanti tutto il giorno, il primo giocando al campione, il secondo giocando per il gusto di giocare alla sua passione, riconcilia con la bellezza poetica di questo sport. Bambino e babbione si muovono con la stessa agilità, la stessa facilità, la stessa soddisfazione. Sono divisi da un'era geologica, da mentalità educazioni culture opposte, ma alla fine li ritrovi uniti e simili negli stessi tremori infantili. Del Toro immagina la sua terza settimana decisiva parlando di curiosità, di vedere se riuscirà a essere questo Del Toro fino a Roma, Caruso mi dice sul traguardo “sì, sto bene, però non ti credere, sono a tutta, non posso sapere se riuscirò a tenere così fino a Roma”.
Potrebbero essere quasi padre e figlio, eppure vivono il Giro allo stesso modo, con gli stessi stupori e gli stessi incanti. Sono questi i volti e le rivelazioni che tengono in piedi la più grande corsa italiana, a dispetto dello snobismo dei grandi che l'hanno scantonata e l'hanno schifata, impoverendone i significati. Grazie a loro, ai Del Toro e ai Caruso. Due calligrafie diverse per scrivere la stessa storia. Dimmi tu come fai a non tifare per loro.