UN GIRO AL TOUR. LA PIPÌ CON MARCO

PROFESSIONISTI | 22/07/2017 | 07:45
I corridori ti chiedono mai di Pantani? «Raramente. E comunque io ho sempre parlato poco volentieri di Marco, mi hanno offerto di scrivere libri, di andare in tivù, ma io volevo soltanto silenzio. Ho cominciato a elaborare quello che è successo da poco, adesso non mi dispiace raccontare di Panta, di quanto fosse forte e determinato. Ma i corridori non credo che neanche sappiano che lo conoscevo». Andrea Agostini si occupa di comunicazione per il team UAE, sa fare bene il suo mestiere, ha vent’anni di esperienza nel settore e per fortuna ha smesso da un pezzo di essere «l’amico di Pantani». Anche se tutto è cominciato così, come è normale che sia in una piccola cittadina come Cesenatico, che soltanto in estate diventa una metropoli. «Era l’estate del ‘98, dieci giorni prima Marco aveva vinto il Giro d’Italia e la Mercatone insisteva perché andasse anche al Tour. Saranno state le tre del mattino, tornavamo da una discoteca, stavamo facendo pipì su un muretto, e Marco mi fa: perché non vieni a farmi da addetto stampa? Almeno impari un mestiere». Andrea si era laureato in Economia, indirizzo aziendale, aveva vinto il concorso in comune, il pomeriggio faceva pratica nello studio di un commercialista e nei fine settimana seguiva un master. «Il giorno dopo mi licenziai, non ero adatto per lavorare in un ufficio».

C’è un’altra cosa di quella notte, oltre alla discoteca, alla pipì sul muretto e alla proposta di lavoro. «Morivamo dal ridere. Gli dissi: ti immagini se vai al Tour, batti Ullrich e scopre che alle tre del mattino eravamo ancora in giro? Quello smette di correre... Ma Marco mi assicurò che non c’era pericolo: al Tour ci devo proprio andare, mi disse, ma tu non ti preoccupare, mi infilo dentro alla prima caduta e torno a casa. Quello era il suo grande piano. Invece tre settimane dopo ero ad aspettarlo in cima alle Deux Alpes sotto il diluvio, e lui arrivò da solo, nove minuti prima del tedesco. Lo aspettai giù dal podio, mi disse soltanto una frase, in romagnolo: hai visto cos’ho fatto? Avevo visto. Io in compenso avevo preso tanto di quel freddo che appena entrammo in camera sua mi misi a vomitare. Lui stava benissimo invece. E’ sempre stato un fuoriclasse, aveva qualcosa in più degli altri: quando correvamo a piedi arrivava primo, quando facevamo le gare di apnea era quello che rimaneva sotto più di tutti, vinceva anche le prove di resistenza nella sauna. Tutto».

Quello non fu il primo Tour de France di Andrea. «Andavo sempre alle corse, in macchina, col camper, in un modo o nell’altro. Il giorno in assoluto più bello è stato l’anno prima, sull’Alpe d’Huez, quando Marco fece quell’urlo micidiale. In quell’urlo c’era tutto, con quell’urlo Marco ritornava, cacciava indietro tutti i dubbi. Io sapevo cosa aveva passato, ero stato con lui tutti i pomeriggi. Credo che anche per la gente siano queste le storie che non si dimenticano, siamo tutti affascinati da chi riesce a tornare dopo un momento di difficoltà. Perché è la vita di tutti, ed è più facile immedesimarsi». Quando sente quell’urlo del suo amico, Andrea scavalca le transenne per entrare nella zona protocollare, «adesso ti sparerebbero, allora mi ritrovai circondato dai gendarmi, Marco se ne accorse e disse che ero suo fratello».

Fratelli lo erano diventati da bambini, davanti al muretto della vecchia casa dei Pantani e nelle lunghe ore di scuola. «Cominciai ad andare in bici in prima media. Uno dei nostri compagni, Matteo Panzavolta, aveva il papà che correva nella Fausto Coppi. Cominciammo sull’onda del dualismo Moser-Saronni, eravamo sessanta bambini. Ma nel nostro gruppo ristretto eravamo quattro o cinque, c’erano Francesco Buratti, Filippo Renato Baldassari, Anthony Battistini. Quando andavamo a fare le prime gare ci prendevano in giro perché venivamo da Cesenatico: dove volete andare, siete dei corridori da sabbione». Dove sabbione è la sabbia in senso possibilmente dispregiativo. Poi sapete com’è la vita, qualcuno va avanti, qualcuno si ferma per strada, qualcuno rimane a raccontare e ricordare. «Marco passò professionista nell’agosto del ’92, io feci la mia ultima corsa in ottobre, la Milano-Bologna. Ero un discreto passista-veloce, ma in salita zero. Rimpianti no, forse avrei potuto continuare qualche anno, non ci ho provato fino in fondo. Ma non ero Marco, lui sapeva cosa voleva fare. Io studiavo, e mio padre mi diceva che a correre perdevo tempo. In fondo va bene così, i corridori fanno sacrifici disumani, mangiano come malati per vivere da sani, quella vita non l’avrei fatta. Però aver corso mi serve nel lavoro che faccio. Altri miei colleghi devono imparare quello che provano i corridori, io l’ho vissuto, non ho bisogno di traduzioni».

Pantani va all’istituto professionale, Agostini diventa ragioniere a Cesena poi va all’università, «sono stato uno dei primi in Italia a dare l’esame di marketing». Tutto regolare fino a quella notte fra il Giro e il Tour del ’98. «Comincio a lavorare con lui nel ’99». L’anno di Madonna di Campiglio, un battesimo di fuoco. «Avevo due strade: potevo uscirne distrutto, oppure imparare qualcosa. Io ho imparato: se mi capitasse ancora una roba come quella, saprei benissimo cosa non fare. E’ anche questione di carattere: nelle situazioni di crisi non perdo la testa, riesco a trovare velocemente una via d’uscita». Dopo il 5 giugno 1999 si rompe il giochino della Mercatone Uno. «Andai al Tour, con Marco ci sentivamo al telefono tutti i giorni. Verso la fine della stagione la squadra decise di isolare Marco, fece fuori tutti quelli che erano nella sua cerchia. E io ero il primo». A quel punto Andrea è costretto a reinventarsi. Dice no ad alcune offerte di aziende del territorio, «decisi di andare avanti nel mondo del ciclismo, non volevo essere soltanto l’amico di Pantani». Prende in mano la Nove Colli e la porta a essere quella di adesso, un fenomeno sociale, e apre la sua agenzia, «il nome me lo trovò il tuo collega Pietro Cabras, @go communication, con la @ al posto della A di Ago. Non hai idea dei problemi che mi ha creato quella chiocciolina, non la prendevano i conti correnti, le partite iva, era il 2000, eravamo noi a essere troppo avanti...».

Nel 2003 Agostini incontra Pino Buda, della Sidermec. «Entro alla Vini Caldirola, e subito Garzelli arriva secondo al Giro per nove secondi». Poi arriva la chiamata di Giancarlo Ferretti alla Fassa Bortolo. Poi la Milram, la Katusha, la Bmc. In mezzo a tutto questo Andrea ha lavorato cinque anni nel calcio con il Cesena, sotto casa, è stato il consulente di Fabio Capello per l’Italia e si è fermato un anno alla Technogym, per la quale ha gestito l’Expo di Milano. Un anno nel quale è stato più vicino a Francesca, Alessandro e Filippo, che adesso hanno quindici e undici anni, «un anno che mi è servito anche se quella aziendale non è la mia vita, però se rimani sempre nel mondo del ciclismo il tuo sguardo diventa per forza miope».

Questo è stato il tredicesimo Tour per Andrea, «esclusi quelli da amico e da tifoso», ma c’è ancora spazio per l’emozione, «uno che mi ha emozionato in questi anni è Purito Rodriguez, quello che io chiamo il campione degli umani. Lui mi raccontava della sua fatica, mi diceva che lui doveva allenarsi come un matto per giocarsela con Freire e con Valverde. Lui è la vita, quella normale». Poi ci sono i personaggi universali, «ma il ciclismo purtroppo oggi non li ama, invece di Sagan ce ne vorrebbero dieci, mica solo uno. Come ci volevano dieci Alberto Tomba, dieci Valentino Rossi, dieci Marco Pantani. Alla faccia di quelli che lo chiamavano corridore da sabbione».

Alessandra Giardini
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