PROFESSIONISTI | 18/07/2017 | 07:38 Quando racconta che dopo il Giro per qualche giorno non ha toccato una bici, sembra che non ci creda ancora, «era la prima volta da chissà quanto tempo». Meglio non abituarsi. Alla fine del Tour ci sarà il Giro di Polonia, e poi la Vuelta, con Nibali che avrà bisogno di tutto il suo meglio. E il meglio di Enrico Pengo sono più di vent’anni di esperienza, un talento nelle mani e una conoscenza che viene da lontano. «Sono figlio d’arte, si può dire anche così. Ho cominciato venticinque anni fa. Ma in officina ci sta mio padre, Adriano». Pengo è nato 45 anni fa a Camisano Vicentino, e a fare il meccanico di corsa ha cominciato nel 1993: Zg Mobili («grazie a Flavio Miozzo, che abitava a sette chilometri da casa mia»), Gewiss, Batik, Ballan, poi la Lampre dal 2000 fino alla fine.
Quest’anno ha scelto la Bahrain-Merida, e subito è arrivato un podio al Giro con Vincenzo Nibali. «La prima corsa fu un Laigueglia, allora la stagione cominciava lì. Eravamo due meccanici, io e Donato Pucciarelli, con un furgone solo. Ci fecero fare subito Giro e Tour. Se penso che c’è gente che in tanti anni non è mai stata al Tour... Questo per me è il diciannovesimo». E venti Giri d’Italia, quindici volte la Vuelta, quindici Mondiali, «purtroppo mai un’Olimpiade. Ma la corsa più bella se fai questo lavoro è sempre il Tour». Ora il calendario è cambiato, si è dilatato, e anche le mete si sono moltiplicate. «Mi piacerebbe tornare in Australia. Col team non ci sono mai stato, soltanto una volta con la Nazionale, ai Mondiali. Mi rimane il ricordo di un posto speciale».
Quando Enrico ha cominciato il grande ciclismo sembrava il cortile di casa nostra, come l’erba di Wimbledon per Roger Federer. Adesso non ci sono più confini: si corre in tutti gli angoli del mondo, per squadre di tutti i Paesi. «Ci sono meno italiani, e c’è molto di diverso. Gli anglosassoni hanno portato un modo di lavorare nuovo, sempre più specializzazione ma un po’ meno umanità. E noi dobbiamo adeguarci. Se penso che fino al 2000 andavamo a fare le ruote a mano, poi l’industria ha molto cambiato il lavoro artigianale». Fuori casa 180 giorni l’anno, «ma se ci metti anche l’assemblaggio delle bici i giorni diventano 250. Ti fermi giusto a Natale e Santo Stefano. Le bici non arrivano montate, il lavoro più grosso è rilevare le misure per ogni atleta e cercare di sbagliare il meno possibile».
Chiusa l’esperienza con l’ultima squadra italiana del World Tour, «ma non potrò mai dimenticare gli anni passati con la famiglia Galbusera», Pengo al team Bahrain ha anche il compito di costruire un gruppo di lavoro, una base per il futuro. «Siamo nove meccanici, per noi è un po’ l’anno zero. Ma è anche una grande soddisfazione, mi sono creato il mio gruppo, gente che lavora con me da tanti anni, e poi abbiamo trovato tre ragazzi sloveni che ci sono venuti subito dietro, sono bravi».
In ogni storia c’è una vittoria che più di altre rimane nel cuore, «la mia è il Mondiale di Ballan, ma anche il Giro di Gibo». E, questo va detto, Simoni e Ballan sono due corridori che hanno il cento per cento dei consensi se chiedi al personale che ha lavorato con loro. «Gibo era un meccanico nato, diventato matto per la leggerezza della bici. Ho fatto notti in bianco quando lavoravo per lui. Nibali lo conosco da poco ma è veramente un grande tecnico, me ne sono accorto subito quando siamo andati in ritiro a Rovigno, non ha vinto per caso quello che ha vinto. Si accorge dei minimi particolari, è bello lavorare con chi ne sa. Per dirti: Berzin nel ‘96 non si accorse che gli avevamo abbassato la bici di tre centimetri perché non ci stava nella scatola. Un’altra volta, prima di un Giro di Romagna, uscì ad allenarsi con la bici di Frattini e non fece una piega».
Tanti ricordi, soddisfazioni, e per forza anche grandi dolori. «Quello per Michele Scarponi non se ne va. Ero il suo meccanico quando vinse il Giro d’Italia, e ho la fortuna di avere la sua bici fra le mie cose più care. Michele era un grande, aveva sempre un sorriso». Il ciclismo è un pezzo di vita, che si è fermato lungo la strada rimane comunque nel cuore di chi è andato avanti. «Senza togliere niente a nessuno, Franco è Franco. Solo chi ha lavorato col Bàllero può capire cosa dico. Lui era unico. Una cosa che non dimenticherò mai fu il Mondiale di Lisbona: era stato un po’ attaccato perché si era portato il suo personale in Nazionale, mi ricordo che in conferenza stampa disse che quello era stato il suo personale quando correva e lui si fidava ciecamente. Un grande orgoglio». Ballerini uguale Roubaix, e le Roubaix sono un incubo per un meccanico. «Ho avuto la fortuna di fare le classiche con lui, mi segnavo tutto quello che faceva su un quaderno, sapevo che un giorno sarebbe stato utile per i più giovani. Certe cose magari oggi sono superate, ma io conservo tutto come un tesoro. La Roubaix... Un anno sono diventato matto. In ritiro mi aveva detto: per la Roubaix voglio il 47 di ingranaggio, che non esisteva. Un giorno andai alla Campagnolo, mi ricordo che ribaltammo l’azienda per trovare un 47. Mi disse: prendi un 48 e spaccagli un dente, e lo feci. Lui ci teneva tantissimo a quella corsa. E poi aveva un rito, la mistura». Alt, stop. Di che cosa stiamo parlando? «Il Bàllero aveva un suo liquido speciale, una mistura che preparava lui, non ho mai saputo le dosi. Era una roba antiforatura: cioè, non è che non foravi, ma se foravi facevi ancora almeno un chilometro e a Roubaix può essere decisivo. Me lo ricordo come se fosse adesso: si metteva seduto sul bagagliaio e mi dava la mistura, e io dovevo metterla nei tubolari, all’interno della camera d’aria, con una piccola siringa senza ago. Era il nostro rito».
Chiudiamo col Tour. «Nel ’95 facemmo una squadra mista: 6 corridori della T-Mobile e noi, fu l’anno delle prime vittorie di Zabel. Io ero al terzo Tour e mi trovai con dei colleghi tedeschi che ne avevano fatti venticinque... Alla Gewiss, nel ‘96, Berzin andò in giallo e poi vinse la crono, e insomma quell’anno riuscii a toccare questa benedetta maglia gialla. Ora mi piacerebbe arrivare a venti, so che c’è un premio per chi ce la fa». Ne manca soltanto uno, ci rivediamo l’anno prossimo. Sempre qui.
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