SARONNI. «LA NOSTRA SFIDA AL MONDO»

PROFESSIONISTI | 26/02/2017 | 07:49
Saronni è un paradosso. Chi lo conosce e lo frequenta lo sa: dopo essere stato uno dei corridori più veloci del pianeta negli Anni Ottanta, oggi è un tranquillo signore pacato, riservato e riflessivo come pochi. Quando c’è da essere veloci lo è ancora adesso, ma deve es­serci l’occasione.
Saronni è un paradosso. Tra gli ex corridori è il più stanziale, eppure da fine agosto all’inizio dell’anno l’uomo della fucilata di Goodwood è passato da es­sere cinese ad arabo in un amen.

«Mi muovo quando c’è necessità. Si può essere Emilio Salgari, che ha scritto di posti lontani standosene comodamente seduto nel suo studiolo di casa, quando tutto corre per il verso giusto.  Ma quando si tratta di affrontare si­tuazioni cruciali, bisogna agire. In questo caso, per garantire il proseguimento dell’attività della squadra e avendo a cuore la sorte di tutte le persone che lavorano nel team e delle loro famiglie, sono stato ben contento di volare in Cina e negli Emirati Arabi».

Ecco, partiamo da qui: come mai è naufragato il progetto cinese?
«Intanto non è naufragato ma ha subìto solo un brusco rallentamento. Purtroppo per noi, l’anima della TJ Sport Consultation Co, il signor Li Zhiqiang, è ve­nuta meno. Il presidente è alle prese con una brutta malattia e in questo momento ha ben altro a cui pensare. In verità parte del suo staff sta lavorando ancora al progetto, ma lo sappiamo, certe iniziative governative hanno i loro tempi e se viene a mancare l’uomo chiave non dico che bisogna ricominciare da capo ma quasi. In ogni caso è un progetto che è lì, nel senso che è tutt’altro che accantonato. E l’augurio è che Li, il presidente di TJ Sport Consultation possa tornare al più presto per completare il lavoro».

Quando hai pensato: qui restiamo tutti a piedi?
«Ho sempre pensato che potesse esserci una via d’uscita, ma non ti nascondo che ho trascorso sicuramente i venti giorni più difficili della mia vita. Non tanto per me, che posso anche smettere di fare questo lavoro domani mattina, ma per le oltre settanta famiglie che rischiavano di perdere un po­sto di lavoro in un momento della stagione in cui non potevano certo riciclarsi. Credimi, non ho dormito per settimane».

Quando è scattato l’allarme?
«A fine novembre, quando ho capito che la documentazione dalla Cina non poteva arrivare nei tempi utili dettati dall’Uci e qui è entrato nuovamente in gioco Mauro Gianetti, che aveva fatto un grandissimo lavoro in Asia e ha trovato al volo l’alternativa. Il 27 novembre è andato ad Abu Dhabi a trovare un suo caro amico che l’ha invitato ad assistere al Gp di F1 e ha colto l’occasione per parlargli di quanto noi stavamo vivendo. Il suo amico è Matar Suhail Al Yabhouni Al Dhaheri, presidente di una società che negli Emirati lavora nel campo dell’edilizia e dell’immobiliare (Kopaonik Property In­vestment LLC) e che è un grandissimo appassionato di ciclismo. Mauro gli ha spiegato tutto per filo e per segno, soprattutto gli ha fatto capire che non c’era tempo da perdere ed era un’occasione d’oro. Matar non se l’ha fatta sfuggire. Forse, in questo caso, la fretta e i tempi cortissimi ci hanno aiutato. O si prendeva questa opportunità al volo, oppure saltava tutto».

Che ruolo ha Mauro Gianetti nel team?
«Oltre ad essere un caro amico e un grande uomo di affari è chiaramente il referente del team con gli investitori».

Avresti mai pensato di diventare “arabo” alla soglia dei sessant’anni?
«Se è per questo non pensavo nemmeno di diventare cinese, ma è la globalizzazione, bellezza».

Che ruolo ha avuto Ernesto Colnago in tutta questa trattativa?
«Come in tutte le cose, in certi momenti, occorre la mano di tutti. Loro sono venuti a Cambiago, hanno visitato l’azienda, hanno parlato con Ernesto, con Alessandro, con Anna e Vanni. Sono stati qualche giorno assieme. Insom­ma, si sono conosciuti profondamente, hanno compreso a fondo cosa significa Colnago nel mondo della bicicletta e per la storia del ciclismo. È stato come mettere su una bella torta già ben guarnita quella ciliegina che gli arabi hanno gradito parecchio. Negli Emirati Arabi si sono gettate le basi, a Cambiago è stato definito tutto».

Il tuo gruppo doveva trasformarsi in TJ Sport, prima formazione cinese. Invece è nato il Team Uae Abu Dhabi, prima formazione WorldTour dell’Emirato che, ac­canto al Gp di F.1 darà grande impulso al ciclismo…
«È un progetto triennale, importante e ambizioso. Quest’anno si prosegue con l’organico che avevamo già predisposto, ma è chiaro che da adesso in poi siamo attentissimi a quello che succederà sul mercato per cogliere occasioni importanti e fare un ulteriore salto di qualità. Gli Emirati vogliono diventare velocemente un punto di riferimento nel mondo del ciclismo».

Sentite di avere una grande responsabilità sulle spalle?
«Guarda, la responsabilità l’abbiamo sempre sentita. Per quasi trent’anni abbiamo portato in giro per il mondo il nome di Lampre e della famiglia Gal­bu­sera: li ringrazio per averci sostenuto con costanza, dal canto nostro la squadra li ha ripagati valorizzando in ma­niera enorme il loro impegno. Cer­to, ora abbiamo sulle spalle il progetto di una nazione. Una nazione che ha scelto in ogni caso una realtà italiana.  Il Team si chiama UAE Fly Emirates. Uae vuol dire Emirati Arabi Uniti. In­som­ma, siamo passati dalla squadra-famiglia della Lampre alla squadra-nazione. E anche la maglia ha i colori della bandiera degli Emirati: bianco, verde, nero e rosso. Porteremo stilizzata sul fronte e sul retro il profilo della Grande Mo­schea in marmo bianco di Carrara, alta 115 metri, che può contenere 40 mila persone ed è uno dei simboli del Pae­se. La presenza di Aref Al Awani, se­gretario generale dell’Abu Dhabi Sports Council, il nostro Coni per in­tenderci, in occasione della nostra presentazione al mondo la dice lunga su cosa sia il nostro team e cosa rappresenti».

Ma negli Emirati il ciclismo è così seguito?
«È lo sport di riferimento. Per l’élite non è il golf ma il ciclismo. Chi ha un certo livello e una certa posizione so­ciale, ha una bicicletta di altissima gam­ma. Abu Dhabi è la città più ricca del mondo, 600 mila abitanti e un Pil da quasi centomila dollari a testa.  E poi c’è anche una bellissima pista ciclabile di 40 chilometri, illuminata anche di notte. Il ciclismo per loro è davvero strategico».

Hai detto: hanno scelto l’Italia. E anche la tecnologia è assolutamente tricolore.
«Sono tornato a casa, dal mio secondo papà: Ernesto Colnago. Con lui e sulle sue biciclette ho in pratica corso sempre. Con le sue biciclette torneremo a correre. E saranno equipaggiate Cam­pagnolo, Selle Italia, gomme Vittoria, attacchi Deda Elementi e caschi Met».

Ma il presidente del team chi è?
«Matar Suhail Al Yabhouni Al Dha­heri».

E la struttura operativa?

«Rimane invariata, andiamo avanti con la nostra organizzazione».

La squadra è stata anche rinnovata e ringiovanita parecchio…
«Un organico di 26 corridori, con Ulis­si, Rui Costa, Meintjes, Swift, Guar­dini e i neopro Ganna, Consonni, Ravasi e Troia. Gli ultimi innesti sono  il marocchino Anassait Elabdia e Yousef Mohamed Mirza, 28 anni, il “Pistolero” degli Emirati, visto che quando vince ha lo stesso modo di festeggiare di Alberto Contador. Però tra i nuovi arrivi ci sono anche Ata­puma e Marcato: due ragazzi sui quali noi contiamo molto».

Una squadra nazione che deve anche rispettare alcune regole comportamentali.
«Esattamente. Non per niente abbiamo un codice interno per i corridori e tutto lo staff: attenzione in particolare ad un uso corretto dei social. All’uso delle fotografie “postate” e all’ambientazione, soprattutto a situazioni in cui siano evidenti gli alcolici o le donne. Sono norme di buonsenso che richiederanno compostezza anche nei momenti di celebrazione delle vittorie sul podio».

Team manager?
«Mio figlio Carlo. Anche per lui questa stagione sarà importante. Dovrà fare il salto di qualità. Ha tutto per poter pe­dalare da solo, anche se io sono sempre qui, pronto ad intervenire  in qualsiasi momento».
Ma se non ce ne sarà bisogno, Beppe avrà almeno due buoni motivi per essere felice.

Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di febbraio
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COMMENTI
Una grande sconfitta.
26 febbraio 2017 18:24 Bastiano
Dire che a Saronni tutta l'Italia del ciclismo deve tantissimo è scontato, dispiace però dover vedere che l'Italia che ha segnato la storia del ciclismo deve restare senza team e che, si sta passando piano, piano alle squadre nazioni, dove siamo comunque assenti, è una sconfitta di tutto il movimento.
Mai come oggi il movimento ciclistico nazionale, dovrebbe farsi un esame di coscienza che non sia quello che fa Di Rocco, il q

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