STORIA | 13/12/2016 | 07:23 Per gli appassionati di ciclismo che hanno seguito il professionismo dagli anni 1970 fino al 2000 (e pure oltre) il nome di Sergio Penazzo evoca e ricorda fotografie di corse e corridori. Padovano, nato a Codevigo nel 1932, nella sua terra d’origine com’era quasi un’abitudine dell’epoca - era il 1949 -, inizia a correre in bicicletta, nella categoria “esordienti” e compie l’abituale trafila fino a giungere, nel 1953, alla squadra Girotto di Este quale dilettante di III^ categoria. Con tutta onestà e schiettezza Sergio Penazzo dichiara che la passione era tanta ma i risultati, invero, pochi o punti, come dicono in Toscana.
Nel 1954, come molti suoi corregionali, lascia il Veneto e si trasferisce in Lombardia, a Brugherio, popoloso centro fra Milano e Monza, lavorando in un’industria di costruzioni meccaniche per impianti chimici. Il lavoro gli piace ma continuano a piacergli pure la motocicletta e, sempre, il ciclismo. In quell’anno è tesserato per il glorioso Sport Club Genova di Milano e conosce così l’ambiente delle corse milanese e lombardo, allora attivissimo e vivo per iniziative, altre corse e corridori. I risultati sportivi sono comunque e sempre piuttosto labili e non oltremodo sportivamente motivanti.
Resta comunque nel ciclismo lasciando però la bicicletta pedalata e s’impegna sempre più a seguire le corse della zona, di varie categorie, con le più differenti mansioni, in moto, l’altra sua viva passione. Agli inizi degli anni 1960, grazie al “signor Mutti”, un appassionato, così lo indica Penazzo manifestandogli ancora riconoscenza, entra in contatto con la Fotocronache Olympia, l’agenzia fotografica milanese appena fondata da due noti fotografi quali il bresciano - originario di Pontoglio - Walfrido Chiarini e dal romagnolo di Modigliana, oramai milanese, Vitaliano – ma per tutti è Vito – Liverani. Per vari anni Sergio Penazzo continua a lavorare in officina ricavandosi comunque, con notevoli sacrifici affrontati con entusiasmo, lo spazio per guidare la moto Olympia alle corse portando sul sellino Walfrido Chiarini, talvolta Vito Liverani che lo chiamava “Testùn” facile la traduzione “Testone”, sia in modo bonario, sia in senso proprio e, soprattutto, Cesare “Cesarino” Galimberti di Cambiago, altro “obiettivo” di rilievo nel ciclismo e in tanti altri sport.
Sono molteplici gli episodi – e pure qualche “volo”, assaggiando il duro asfalto, in moto – che Penazzo ricorda per quel periodo e che gli hanno lasciato qualche “ricordo” nel fisico. Lui però non ci bada troppo, anche se, con l’andare degli anni, i ricordi si fanno sentire in varie parti del corpo. Nel 1972, con le esperienze acquisite nel settore, decide di mettersi in proprio, a tempo pieno, con l’Agenzia Penazzo che collabora soprattutto, nel ciclismo, con l’AP, la multinazionale Associated Press. Alla guida della sua moto si alternano soprattutto i piloti Marco Magni, Mario Milan, Daniele Ghezzi e il trentino Sergio Fedrizzi che sopportavano e supportavano nel suo lavoro il sempre vivacissimo (eufemismo, sovente) Sergio Penazzo che li ricorda ancora con affetto. La corsa, dalla partenza all’arrivo, è sempre seguita da Penazzo, da vicino, senza intervalli o soste.
Troppo da vicino, talvolta, soprattutto nelle fasi calde, decisive, a giudizio dei direttori di corsa e poi dai componenti di giuria che ingaggiavano con lui diversi duelli a colpi di fischietto e intimazioni a rispettare le distanze, alcune di queste tenzoni sono state mostrate in diretta televisiva. Penazzo però voleva essere sempre nel vivo della corsa ed era “accettato” dal gruppo dei corridori che con lui erano in grande familiarità. “Bandito” era un altro suo soprannome, fra il serio e il faceto, che gli aveva affibbiato un noto fotografo olandese, Cor Vos, uno dei fotoreporter di maggior spicco del circuito ciclistico mondiale, ancora in attività, che con i suoi colleghi “lanzichenecchi” specialisti delle corse del nord, avevano incluso nella loro cerchia Sergio Penazzo.
La corsa, i fatti salienti della gara da documentare, sempre in moto, con il traguardo raggiunto all’ultimo secondo utile per scattare le immagini dell’arrivo, le premiazioni, costituivano la prima parte della giornata di lavoro ma, dopo l’arrivo, continuava l’impegno – non da poco - per sviluppare le immagini e trasmetterle dalla sala stampa con il sistema della telefoto. Una continua lotta contro il tempo, sviluppando la pellicola con gli acidi nello spazio angusto della cabina di un furgone Fiat Fiorino dapprima e poi, in un secondo tempo, nello spazio leggermente più confortevole e ampio di un Fiat Ducato che il collaboratore di turno gli faceva trovare piazzato alla sala stampa. E qui opera Penazzo, sempre di corsa, quasi trafelato, che si sposta dal furgone ai bagni dove era sicuro di reperire l’acqua necessaria allo svolgimento del suo lavoro, poi per trovare la presa di corrente per alimentare i suoi strumenti e individuare le linee telefoniche per allacciare i suoi collegamenti, scrivere le didascalie e spedire ai committenti il frutto del suo lavoro. Un impegno stressante dove è stato aiutato per molti anni pure dal figlio Fausto (precisamente Fausto Serse, all’anagrafe, tanto per non lasciare dubbio alcuno sul suo “idolo” ciclistico) che ha anche digitalizzato il suo fornitissimo archivio, ricco di preziose testimonianze – vive, “live” si direbbe oggi, dirette, vissute da vicino, da dentro, veramente, non millantate.
Nel nuovo millennio, nel 2000, Sergio Penazzo, dice “stop”, seppure a malincuore, e si avvia verso un meritato riposo sulla sponda del lombarda del lago Maggiore, nella quiete di Germignaga, vicino a Luino. E’ stato un testimone di un lungo, lunghissimo, tratto del ciclismo, sempre disponibile e collaborativo con le varie componenti e, per il settore organizzativo in special modo, ha sempre assicurato la diffusione delle immagini anche per le gare logisticamente più disagiate. Le sue foto hanno illustrato numerose e pregevoli pubblicazioni sul ciclismo di vari autori. Talvolta, e non di rado, in corsa guidava personalmente la motocicletta e scattava foto con le due macchine fotografiche sempre appese al collo, una delle quali “il cannone”, provvista di teleobiettivo. Qualcuno chiudeva un occhio, se non due, sul fatto, ricorda Penazzo. E’ stato un vero fotografo di strada, non di studio, Sergio Penazzo.
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