LIBRI | 19/09/2016 | 07:27 Ci sono persone che incontri e ti restano impresse per sempre. Se poi sono appartenuti al nostro mondo, al mondo del “bel ciclismo”, questi ti segnano ancora di più. Contemporaneo di Bartali e Bini, predecessore del ciclismo toscano di Corrieri, Maggini e Soldani, Cesare Del Cancia è uno di questi.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo quando ultraottantenne mi ha fatto il grande onore di scrivere la prefazione a un mio volume sul ciclismo dei polverosi anni trenta. Apprezzai subito la sua passione che non era scemata con gli anni, anzi…Apprezzai subito la sua sincerità quando mi raccontava episodi da epopea ciclistica senza infiorire “pro domo sua”, come si è soliti fare sicuri di non ricevere contestazioni da chi allora non c’era. Un giorno a Pontedera mi fece vedere la sua valigia dei ricordi e anche quella volta mi entusiasmai e apprezzai l’amore che aveva messo nel conservare ed archiviare foto, ritagli di giornale, corrispondenze e documenti che potevano rinnovare i suoi trascorsi. Non mi sono stupito, quindi, quando ho appreso che stava per essere pubblicato un libro su di lui con tutto questo “ben di dio” di cronache e notizie dove si respira polvere e olio canforato.
L’ambiente degli esordi è quello sano, sanissimo delle corse di paese dove i ragazzi si trovavano senza neppure accorgersene a fare del bel agonismo, dove la rivalità tra rioni e città carpiva l’attenzione di tutti quando, in un’Italia senza traffico e con strade impossibili, ogni domenica ed ogni giornata di festa era l’occasione per far girare i pedali e misurarsi con i coetanei per una coppa, un premio o per il sorriso di una ragazza. L’ambiente delle società sportive degli anni trenta che profondevano rivalità, passione e applausi per questi ragazzi, leali, sinceri, vogliosi di fama, insomma la migliore gioventù della nostra nazione che purtroppo si stava inesorabilmente avviando verso il baratro del conflitto mondiale.
Cesare Del Cancia comincia a pedalare così, e, senza quasi rendersene conto, si trova a gareggiare con Gino Bartali, con Aldo Bini, con Varetto, con Generati e Vicini, con Ricci e Giuppone (tutte oneste e autentiche facce da ciclismo, rivali per tutta la carriera). Ma nelle cronache dell’epoca e negli ordini d’arrivo dettagliati e precisi c’è, curiosamente, posto anche per un modesto Faliero Masi (ma futuro eccelso “Sarto della bicicletta” ) che avrebbe dato a Fausto Coppi l’ultimo “attrezzo” col quale ci avrebbe salutato prima di lasciarci.
Quindi tra aneddoti, cronache, fotografie e documenti, la carriera di Del Cancia si dipana sotto i nostri occhi e il campioncino di Buti arriva senza “traumi” al professionismo addirittura con la Bianchi. Olmo, capitano designato, lo ricusa perché troppo “individualista” e incapace di stare agli ordini di scuderia. A questo punto spazio per lui nella Ganna dove si afferma ripetutamente e dove vivrà 4 anni di gloria ad altissimi livelli. Pregevoli le cronache dettagliate delle vittorie di peso, delle altre corse e in special modo quelle poco note del Giro della Svizzera.
Un bravo, anzi bravissimo quindi a Massimo Pratali, artista della “toscanità”, che ha ordinato la ricca documentazione archiviale integrandola con materiale di ricerca sui giornali dell’epoca e che ha confezionato un lavoro pregevolissimo come documento di ricerca ma soprattutto come atto d’amore verso un corregionale che meritava di essere ricordato in maniera consona.
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