| 27/07/2008 | 16:42 Un destino scritto nel nome: Cadel. Per la seconda volta consecutiva, l’australiano Evans cade dal Tour. L’anno scorso come quest’anno: c’è sempre uno spagnolo a buttarlo giù dal trono dai Campi Elisi. Nel 2007 Contador, stavolta Sastre. Se si va poi a scartabellare nel passato, si scopre che il buon Cadel è stato tre volte secondo anche ai Mondiali di mountain bike. Gli indizi sono troppi, cominciano ad essere una prova: come canguro, gli manca l’ultimo salto, da buon corridore a vero campione. E’ il più difficile, si chiama salto di qualità. Chiedere a Poulidor, chiedere a Chiappucci: quando manca sempre un centesimo per fare un soldo, non può essere solo sfortuna.
La verità è che Evans, in questo Tour, non ha mai emozionato. Non si è mai emozionato. Sempre regolarissimo, sempre coi primi, mai primo. E proprio nel giorno decisivo, tutto a suo favore, questa cronometro disegnata su misura per rimontare il minuto e mezzo a Sastre, proprio in questo giorno unico e irripetibile, l’occasione della vita, il suo grigiore diventa pesantezza, fatica, lentezza, fino alla deriva di un nuovo secondo posto. Eufemismo per dire sconfitta. Ancora una volta, Evans è il primo dei battuti.
Mentre anche questa crono del Tour va a Schumacher, già dominatore della prima, a conferma che in questo cognome, dalle parti di Germania, dev’esserci scritto un destino di alta velocità, gli affari d’alta classifica si chiudono senza patemi e senza colpi di scena. Dal primo all’ultimo chilometro, la maglia gialla sta sempre saldamente sulle spalle di Sastre. Evans gli ruba qualcosa, ma sono solo spiccioli. Alla fine, la grande sfida si trasforma in una pratica di routine. Nessun testa a testa: solo Evans che batte meste testate contro un’impresa più grande di lui.
A questo punto bisognerebbe tutti quanti sperticarsi in lodi per Sastre, gregario di trentatrè anni che sin qui, dal 1998, aveva vinto cinque gare. Bisognerebbe inchinarsi nuovamente davanti allo strapotere di questa Spagna sportiva, al suo terzo Tour consecutivo, nonché capace negli ultimi mesi di vincere il Giro con Contador, gli Europei di calcio con le Furie Rosse e Wimbledon con Nadal. Bisognerebbe cioè mandare un sacco di ammirate congratulazioni a Zapatero, che di questo primato sportivo fa infatti largo uso propagandistico. Poche storie: bisognerebbe invidiarli tantissimo, questi superuomini di Spagna.
Bisognerebbe, ma nel mio piccolo mi rifiuto categoricamente. La Spagna sarà pure la nazione che stravince tutto, probabilmente sta dominando anche le sagre della tinca e i tornei di scopa chiamata in giro per il mondo. Ma non me ne importa un accidente. Non riesco né a complimentarmi, né ad ammirare, né tanto meno ad invidiare.
Per me, e mi scuso per la cocciutaggine delle mie memorie, la Spagna resta ancora oggi, anche dopo quest’ennesimo trionfo francese, l’Eldorado del doping che negli ultimi anni ha ospitato il più grande scandalo della storia, quell’Operacion Puerto di lugubre memoria. Sì, per me la Spagna resta l’unica nazione europea che scandalosamente e colpevolmente, facendosi forte di cavilli legali, non ha mai nemmeno provato ad alzare il coperchio dal suo mefitico calderone, lasciando tutto e tutti al posto loro, indisturbati e ineffabili, proprio mentre gli altri Paesi giustiziavano i propri atleti. Chiedo: è una coincidenza che l’Operacion Puerto abbia appiedato tutti i più forti avversari da tre anni, e che da tre anni casualmente la Spagna vinca il Tour?
Grazie a questa vergogna cosmica, in questo stesso Tour erano in corsa campioni con nome in codice “Valv-Piti” e “Amigo de Birillo”. Spagnoli, mai sfiorati. Chiedo scusa, ma proprio non ce la faccio. Secondo me, tutto lo sport mondiale dovrebbe ribellarsi a questa ingiustizia. Ma vedo che la capacità d’indignazione ormai s’è ridotta a zero. Non a caso, sono tutti esultanti sotto il palco del Tour, a osannare la superpotenza spagnola. Col loro permesso, mi dissocio.
da «Il Giornale» del 27 luglio, a firma Cristiano Gatti
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