
Michele Bartoli è stato un campione capace di vincere tanto, ma ha sempre saputo rimanere semplice, lontano dai clamori e dai riflettori. Nel ciclismo come nella vita, ha dato valore prima alla persona e poi all’atleta. Un approccio che lo ha accompagnato in ogni traguardo tagliato e che oggi è al centro del suo lavoro con i giovani: perché, come ripete spesso, solo un uomo sereno può diventare un atleta vincente.
In questa intervista il campione toscano ci racconta il suo modo di vedere il ciclismo e la vita: dai ricordi delle corse più dure alle riflessioni sul futuro dei ragazzi, dalla gioia della maglia azzurra al sogno di un ciclismo che torni ad avere al centro l’uomo, prima dei numeri e dei dati.
Partiamo da un ricordo forte: qual è il momento più significativo della tua carriera da professionista?
La mia prima vittoria, al primo anno da professionista, in Sicilia. Era solo la mia seconda gara tra i pro e in quel momento si sono aperte delle porte che prima erano chiuse. Ha fatto capire, a me ed alle squadre che poi hanno investito su di me, che potevo essere un buon prospetto. Non dico che da lì sia diventato tutto facile, perché il posto bisogna sempre guadagnarselo, ma sicuramente mi ha dato più possibilità rispetto a quello che avrei avuto con prestazioni più negative.
Tanti sostengono che il mondo del ciclismo sia cambiato, ma io credo che anche adesso, tolti i campioni come Pogačar, Evenepoel o Vingegaard, il ciclismo resti uno sport dove serve tempo per maturare e se non si dà tempo ai ragazzi di crescere, il movimento rischia di fermarsi. Il mondo non è cambiato: cambia solo il fatto che a volte nascono dei fenomeni e in altri periodi no.
Cosa significa per te aver indossato la maglia di campione italiano? La senti ancora “tua”?
Ha significato tantissimo. Da bambino avevo in casa diverse fotografie di Francesco Moser con quella maglia, in tutte le stanze. Quando a dieci anni vedi il tuo campione preferito con quel simbolo, è naturale che sogni un giorno di portarla anche tu, perciò poterla indossare è stata per me una soddisfazione immensa.
C’è una corsa o un rivale che ha segnato in modo particolare la tua carriera?
Il mio rivale è stato Laurent Jalabert. Il confronto con lui ha segnato un po’ la mia carriera in quanto essendo lui un grande campione, le mie vittorie hanno avuto ancora più valore. Jalabert dava sempre tutto quello che aveva, nel cuore, nelle gambe e nella testa, senza troppe tattiche. In un ciclismo come quello di oggi, anche senza fare paragoni, direbbe ancora la sua tranquillamente.
Come hai vissuto il passaggio dalla vita da atleta a quella post-carriera? È stato difficile?
È un passaggio complesso, soprattutto per chi si sente ancora corridore e ha bisogno di ribalta e interviste. Ma quando appendi la bici al chiodo, le necessità cambiano: chi non lo capisce resta legato al passato e non va avanti. Chi invece sa voltare pagina ce la fa.
Il ciclismo è ancora parte della tua quotidianità? Di cosa ti occupi oggi?
Collaboro con gli atleti, faccio il coach. È l’unico momento in cui il ciclismo mi impegna, perché non sempre guardo le gare. Quando ci sono i miei atleti li seguo ovunque, ma quando non ho interessi diretti difficilmente seguo le corse. Per fare il coach ho studiato con i corsi federali e tutti i giorni cerco di aggiornarmi e leggere. Non posso farmi trovare impreparato: da atleta chiedevo molto e mi interessavo di tante cose e ho voluto continuare così anche dopo. Il mio direttore sportivo Ferretti diceva sempre: “agli atleti non dite una sciocchezza due volte, perché poi non vi credono più”. Se non sai le cose, soprattutto con gli atleti super preparati che ci sono oggi, non puoi essere credibile.
Cosa pensi del ciclismo di oggi? C’è qualcosa che secondo te andrebbe recuperato dal passato?
Il ciclismo di oggi è bello, tecnologico, stimolante, ma a volte porta a sacrificare le necessità della persona. Dare valore alla persona, prima che all’atleta, può aiutare a tirare fuori il meglio: se uno è sereno nella vita privata fa tutto meglio. Gli atleti oggi sono molto studiati e poco aiutati: prima la persona, poi l’atleta. Non sono tutti fenomeni, ma ognuno ha bisogno dei suoi tempi di maturazione, così come nel passato.
Hai un consiglio per i giovani che sognano di diventare professionisti?
Seguite la Bartoli Academy! Scherzi a parte, con questo progetto vogliamo aprire un percorso dai giovanissimi fino alle categorie internazionali, senza abbandonare i ragazzi nei momenti cruciali della crescita. Spesso chi è in difficoltà viene scartato; noi vogliamo farli maturare fisicamente e mentalmente per aiutarli a rendere al meglio fino all’età adulta. Almeno fino agli Allievi i ragazzi devono solo imparare, senza pressioni: solo amore per il ciclismo.
Oggi è difficile suggerire ai ragazzi di fare ciclismo:. Grazie anche al mio Comune di nascita, Vicopisano, stiamo lavorando per mettere in sicurezza le strade per poter lavorare meglio con i ragazzi.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.