IL RACCONTO. FABIO MARZAGLIA: «I MIEI SEI ANNI CON GIANNI SULLE STRADE DEL MONDO»

ABBIGLIAMENTO | 01/01/2025 | 08:15
di Fabio Marzaglia

Fabio Marzaglia ha lavorato per sei anni come addetto stampa delle formazioni di Gianni Savio, oggi è direttore de Il Biellese ed ha voluto regalarci il suo ricordo del manager torinese.

C’è un tratto di Gianni Savio che emerge nel ricordo incalcolabile di queste ore. Intenso, come lo è sempre stato lui in un’avventura che già solo per farla durare così sulla breccia quarant’anni bisognava avere qualcosa in più. Intenso, come sempre da uomo che ha vissuto con il ciclismo e del ciclismo, con la gente e della gente.


I saluti, anche quelli funebri, che oggi i social rendono pubblici, a differenza dei pensieri intimi che un tempo si affidavano chiusi in una busta da spedire alla famiglia, sono l’espressione di quel che è stato e di quel che ha fatto. Un uomo, sopraffatto da una maledetta passione, come amava chiamarla lui, che ha goduto dell’attenzione, dell’affetto e dell’amore delle persone. Quelle stesse che oggi ricordano una sua stretta di mano, esibiscono una foto, ah le foto (tra l’altro, in un sacco di quelle pubblicate in queste ore è come se rivedessi dall’altro lato dell’obiettivo), vantano una chiacchierata, sventolano un autografo, riportano alla memoria una telefonata o un semplice sorriso. Già, la gente, meglio quella del ciclismo, era la sua adrenalina. Per la gente bisognava avere rispetto ad ogni corsa, per la gente bisognava dare spettacolo, per la gente bisognava esserci.


È stato un inguaribile ottimista Gianni Savio che a raccontarlo non basterebbe un libro che in vita non avrebbe mai tollerato perché sarebbe stato un po’ guardare all’indietro per lui abituato sempre a guardare avanti.

Oggi lo ricordo non perché l’ho conosciuto, ma perché l’ho vissuto. Sei anni, quelli da addetto stampa della sua squadra (e di Marco Bellini, come non trascurava mai di dire). Da quel pranzo da Birilli a Torino, perché Gianni aveva luoghi che preferiva di gran lunga ad altri, fino ad un Giro dell’Appennino, perché anche nelle corse ne aveva di quelle immancabili.

E se per il Manzoni era dal Manzanarre al Reno, dalle Alpi alle Piramidi, per noi è stato dal Tirreno all’Adriatico, dal Mortirolo all’Izoard. Non ha mai vissuto esule come Napoleone, anche se dai racconti tenerlo fuori dal Giro in qualche occasione è diventato un po’ come un esilio, lontano dalla sua corsa, dal suo pubblico, dalla sua ammiraglia.

Io potrei raccontare chilometri, come quelli passati in auto, di aneddoti, vissuti dalla poltrona privilegiata del comando. Perché se il massaggiatore conosceva tutto del corridore, io da addetto stampa sui generis con Gianni sapevo e sentivo pressoché tutto. È stato da quel punto di vista un onore e una scuola. Rispondeva a tutti, che fosse il primo ministro di chissà dove o un vecchio tifoso cui aveva dato il numero. Si fermava ad ogni angolo, ad ogni sussurro del suo nome, cosa che lo inorgogliva non poco. Era attento a scrivere a chiunque. Questo più di altro dà l’idea del perché e per come fosse considerato un signore, un signore di tempi lontani. Le terre lontane, invece, ci aveva pensato a scoprirle lui, andando in Sudamerica a cercar ciclismo quando al massimo gli altri là, se proprio sport doveva essere, pensavano al calcio. Quel Sudamerica sempre nel suo cuore, anche quando negli anni aveva preso ad andarci meno. Là era una sorta di dio del ciclismo con il suo “un saludo muy cordial a toda l’aficiones” che entrava con le onde della radio nelle case e nelle locande come un mantra.

Un giorno mi disse che si riteneva fortunato. Mi spiegò: «Per la famiglia stupenda che ho». Della fortuna sul lavoro, nel ciclismo, pure di quella non ne aveva fatto mai mistero, chiamandola capacità di sfruttare le occasioni. In effetti le ha sfruttare le occasioni, dopo essersele cercate e coltivate. Aveva intuizioni. Mi colpiva quotidianamente il coraggio di un uomo che era come se non volesse mai saperne di andare a dormire. Uno di quelli da sfatare miti e leggende, perché lui a “il mattino ha l’oro in bocca” preferiva di gran lunga gli orari più latini di un pranzo alle due del pomeriggio.

Già, quanti pranzi, quante cene, quanti spuntini, quanti caffè. Un highlander che saltava da un bus per una riunione ad un podio con la squadra. Da un aeroporto a una seggiovia.

Ho conosciuto il general manager, ma soprattutto l’uomo. Con i suoi riti e le sue abitudini. Avevo imparato che finito il Laigueglia neanche il tempo di fermarsi in coda a Spotorno che già avevamo fatto la classifica della Coppa Italia, quella dannata Coppa Italia. Avevo imparato a conoscere il suo amico di gioventù e di famiglia Cico, avevo imparato ad ascoltare senza sentire le puntualissime e irrinunciabili chiamate alle figlie, rigorosamente salutate con i nomignoli che si portavano appresso da piccole in un moto perpetuo d’affetto, e a sua moglie, per sempre nell’intimo dell’abitacolo la “bella Pablita”. «Vedi, sono sempre stato via, devo moltissimo a lei per aver fatto crescere benissimo le nostre figlie. Io ho cercato di non far mancare mai niente» mi spiegava raccontando delle telefonate a casa mentre era dall’altra parte del mondo.

Siamo andati ovunque: a Roma per un Giro d’onore o ad Albese per una serata sul ciclismo con la stessa voglia, lo stesso piglio, il medesimo desiderio di esserci. Siamo andati al Giro da protagonisti e al Tour da spettatori. Abbiamo consumato le suole delle scarpe sugli arrivi di mezza Italia, che ci fossero quaranta gradi o la pioggia torrenziale. Perché per quella maledetta passione non c’erano confini o limiti, neppure quelli che gli consigliava il dottore della squadra che lo faceva più per il giuramento di Ippocrate che per l’idea di riuscire a frenarlo in qualcosa. Abbiamo fatto firmare corridori in un sottoscala dietro alle Alpi, abbiamo immaginato fughe e attacchi. Abbiamo, in un plurale che certo inorgoglisce me, dandomi forte l’idea di aver potuto vivere qualcosa ben oltre i suoi adorati comunicati stampa che avevo preso a scrivere a caldo, caldissimo con soste più o meno convincenti all’autogrill o alla piazzola di fortuna perché dovevamo «uscire subito». Abbiamo vissuto vittorie e sconfitte, colpi di genio e fregature, come quella firma estiva che con i droni spagnoli sembrava far volare nel futuro e invece ha fatto precipitare i sogni. Facevamo di rito tappe, come in una corsa, dal salvatore Pino Buda, da Bepi Bigolin o da Diego Turato, da Mario Androni o Anna Salice, da Lauretana e da Miche. Per una foto che era una nota stampa, per un contratto che era linfa per la squadra.

Tengo strette le abitudini (avrei potuto ordinargli io la cena o il caffè a modo suo al bancone) e anche le arrabbiature, le attese e il nostro tutto con la squadra, con lui, Marco (Bellini) e Giovanni (Ellena) più d’altri. Tengo stretto tutto di un periodo bello, bellissimo, intensissimo dove ti capitava all’improvviso da Pieve di Cadore di metterti in macchina con lui e andare di corsa a Parigi in una notte per abbracciare Egan Bernal in giallo. Difficile da scordare. Impossibile da rivivere.

Non è mai stato un re, Gianni Savio, ma Principe, con la P maiuscola, si. Il soprannome che gli aveva affibbiato Pier Bergonzi, cui credo per quello avrebbe fatto un monumento, era il suo per stile (credo di averlo visto solo una volta senza giacca, ma comunque in camicia, per una ventina di minuti non di più), garbo e savoir faire. Quello che poche, poche, volte mi è capitato di vedergli e sentirgli perdere. Quando gli succedeva aveva ragione però. Perché come tutti avrà pur avuto qualche difetto, ma era onesto. Di parola. E a quella teneva più di tutto.

Come hanno ricordato in tanti è stato l’uomo che ha dato una possibilità. Spesso la prima, ad un massaggiatore, ad un meccanico, ad un corridore. A me (almeno al cinquanta per cento). E spesso la seconda, della rinascita.

Ora è finito tutto, come all’ultima tappa di un grande Giro. Senza però purtroppo che ce ne sia un altro. Ma solo tutti quelli passati da ricordare. È triste, semplicemente triste pensando a chi al telefono, che fosse Ferragosto o Natale, mezzogiorno o mezzanotte dall’altro capo del mondo, non mancava mai di avere la voce squillante, vivace e determinata.

Credo che questo fiume di testimonianze e di affetto non lo commuoverebbe, ma lo emozionerebbe. Di sicuro. E molto. Citandolo, gli direi che non bisognava essere Einstein per immaginarlo. Perché di Gianni Savio un altro non ce ne sarà. Impossibile. Assolutamente impossibile. Sono certo sorriderebbe.


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COMMENTI
Bellissimo Racconto
1 gennaio 2025 09:24 thered
Complimenti per il Bellissimo Racconto, e per aver parlato di particolari che solo chi era vicino al Sig.Savio conosceva, e per averci reso partecipi. Grazie

Bravo!
1 gennaio 2025 22:14 gianni
Bravo Fabio, uno splendido ricordo di una persona irripetibile.
Gianni Cometti, Cureggio (Novara)

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