L'ORA DEL PASTO. SANDRINO CARREA ERA UN CAMPIONE

LIBRI | 04/02/2020 | 07:40
di Marco Pastonesi

 


Correva non per vincere, ma per far vincere. Correva non per far soffrire, ma per soffrire. Correva non con gli altri, ma per gli altri, anzi, per un altro, che poi era quasi correre per se stessi. Perché Sandrino Carrea, gregario, correva per Fausto Coppi, capitano, campione, il Campionissimo, tutto.


Carrea correva e rincorreva, aiutava e inseguiva, tirava e spingeva, prendeva acqua e portava borracce, tagliava l’aria davanti e il traguardo dietro. Ma nelle rare giornate di libertà, vinceva. Come nella Martigny-Ginevra, seconda tappa al Giro di Romandia 1952: scattò in salita, intascò i premi dei traguardi della montagna, resistette in testa, arrivò da solo.

Un libro celebra finalmente la carriera di quello che l’Equipe, il giorno – giovedì 3 luglio 1952 - in cui s’impadronì della maglia gialla al Tour de France, definì simpaticamente “l’ogre”, l’orco. Non era un orco, non era neppure come lo aveva affettuosamente classificato il suo fraterno amico Ettore Milano “un incrocio fra un cinghiale e un orso”: Carrea era un campione, anche se fra i gregari. Ed era molto di più: un uomo buono, puro, leale, onesto, generosissimo.

“Sandrino Carrea” (120 pagine, 15 euro) è stato composto da Luciana Rota e pubblicato dal Museo del Ghisallo, grazie al sostegno di Roquette Italia, l’azienda per la quale Sandrino, parcheggiata la bici in cantina, aveva lavorato. Rota ha scavato negli archivi, cartacei e fotografici, per resuscitare e valorizzare la figura di questo “angelo” di Coppi. Un angelo custode, protettore e annunciatore, un angelo che preferiva l’ombra delle stanze alle luci della ribalta, perché era un angelo che preferiva campare di luce riflessa. La vita gli aveva insegnato a stringere la cinghia e i denti, soprattutto quando durante la Seconda guerra mondiale si ritrovò prigioniero e internato in Germania. Due volte evase, due volte venne catturato, due volte si salvò, e poi sopravvisse a un omerico viaggio di ritorno, a piedi, sbagliando direzione, finendo in Russia, giungendo infine a casa dove il padre, che stava zappando la terra, non lo riconobbe. Sandrino pesava la metà di quando era partito.

Che cosa volete che fossero Sella e Pordoi, Vars e Izoard per un superstite come Carrea. Sull’Alpe d’Huez, scalata per la prima volta proprio in quel Tour del 1952, Carrea arrivò al traguardo frenando, felice, soprattutto tranquillizzato, di aver donato la maglia gialla per soli cinque secondi a Coppi. Tanto più che a duecento metri dallo striscione gli era saltata la catena e da molto prima l’ammiraglia di “Pinella” e Biagio Cavanna era rimasta senza benzina. Carrea era un arrampicatore nato e cresciuto e diventato: più la corsa era dura, più la qualità del suo “legno” – la resistenza alla sofferenza – emergeva.

Nel libro, Sandrino non parla. Lui, più che parlare, sbuffava, brontolava, mugugnava, tuonava, ruggiva. Lui, erano più le parole che inghiottiva di quelle che espelleva. Lui, erano più gli sguardi e le smorfie che non le relative e le consecutive. Precisissimo, annotava tutto su un quadernetto: appuntamenti, impegni, corse, visite, spese, regali. E, al momento opportuno, controllava, dichiarava e sentenziava. Però nel suo libro ci sono tanti estratti da articoli e tantissime fotografie, alcune mai o poco viste. E lì Sandrino parla senza bisogno di parole: il naso, dolomitico, le vene, a fior di pelle, i tubolari, attorcigliati sulle spalle, la fame, atavica, e anche un sorriso, candido. Carrea, non si poteva non amarlo. Carrea, che privilegio averlo conosciuto.

 

 

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