LE SETTE PERLE DI HULK SAGAN

PROFESSIONISTI | 28/08/2019 | 07:35
di Pier Augusto Stagi

«Se deve esserci qual­cuno che bat­te il mio re­cord, so­no contento che sia lui: se lo merita». Erik Zabel lo dice subito, a inizio Tour, senza nascondersi dietro un dito. Sei maglie verdi consecutive per il fuoriclasse tedesco, sette in totale per il fuoriclasse slovacco, a soli 29 anni.


«È chiaro che stiamo parando di un fe­nomeno, di qualcosa di unico ed eccezionale - ha spiegato il tedesco -. Le mie sei maglie non me le toglie nessuno: fanno parte della storia. Le sue og­gi, oltre essere storia sono primato».


L’incredibile Hulk gonfia il petto e i muscoli: ancora una volta è verde. ‘Uuhhhhh’, la posa del corpo a imitare l’Incredibile Hulk al momento di ta­glia­re il traguardo, come a Colmar, il 10 luglio scorso, il giorno dopo il successo di Elia Viviani. In terra d’Alsazia Peter mostra i muscoli e fa il gesto, scatenando l’entusiasmo dei tifosi e dei compagni di squadra, ad incominciare dall’amico e compagno Daniel Oss, che al mattino lo aveva solleticato postando un video datato 2012, dopo la vittoria di Metz.

Quello di Colmar è stato il dodicesimo sigillo di tappa in carriera per il tre vol­te campione del mondo. Dodici come Bartali e Indurain, Cipollini e Zabel. Ma con un po’ di pazienza, quella che lui dice di aver avuto in questo Tour, li supererà.

«Sapevo che il successo sarebbe arrivato - ha spiegato il ventinovenne fuoriclasse slo­vacco della Bora Hansgrohe -. Ci voleva solo pazienza. La maglia ver­de? Ero qui per questo. Ma non ne ho mai fatto una malattia. Sapete bene or­mai quel è la mia filosofia: una tappa per volta pensando a divertirmi. Se mi diverto io, vi divertite voi e quanti so­no davanti alla tivù o sulle strade».

Per il fenomeno slovacco sono 113 vittorie in carriera. La vittoria numero 12 al Tour, invece, non ha avuto troppa storia con il belga Van Aert il primo dei battuti, e con i nostri Trentin e Col­brelli subito dietro.

«Ho vinto solo una volata, ma io ho dato tutto per tre settimane - ha spiegato -. Non mi sono risparmiato. Ho dato battaglia e mi sono difeso quando c’era da difendersi. Ho provato tutti i giorni, perché ero consapevole che prima o poi doveva andarmi bene».

Il suo è stato un Tour ricco d’impennate e gesti da ricordare, come l’autografo sul libro che un ragazzino gli ha porto proprio sul Tourmalet. Lui, sen­za fermarsi, ha preso libro e pennarello, e ha posto il proprio autografo. Poi frasi ad effetto, o in ogni caso in perfetto saganese.
«Lo sprint? Non me lo ricordo be­ne, meglio che andiate a riguardarlo in televisione».

E sulle vittorie di tappa? «Un successo in più o in meno non cambia troppo la vita, ciò che conta è dare il proprio meglio». O sulla maglia verde, che co­me quelle iridate o di campione na­zio­nale da tanti indossa a coprire regolarmente quella di team. «Maglia verde, maglie di campione, maglia del team? Sono soltanto maglie, colori diversi».

L’incredibile Sagan debutta al Tour set­te anni fa: è il 2012. Ed essendo un fenomeno l’esordio non può che essere vincente. La contabilità alla Grande Boucle è lì da vedere: 12 vittorie, arricchite da 44 podi, di cui 22 secondi po­sti e 10 terzi. Sesto di sempre ad appena 29 anni.

E dire che la sua primavera non è stata tutte rose e fiori, anzi. Se fosse un corridore normale dovrebbe solo andarne fiero, per continuità e peso dei piazzamenti, parlando però di un fenomeno, sono ‘solo’ piazzamenti: 4° alla San­re­mo, 11° al Fiandre, 5° alla Roubaix, ri­tirato a Amstel e Freccia, niente Liegi. «Non sempre le cose vanno come vorresti - dice lui con assoluta calma, con quel faccino da eterno pierino -. A febbraio, a Sierra Nevada, ho avuto un vi­rus che mi ha rallentato la preparazione, debilitandomi molto: ho perso di­versi chili, e alla fine mi sono trovato nella situazione tutt’altro che piacevole di dover rincorrere tutto e tutti».

Preoccupazione. Timore di aver sbagliato tutto o di non essere più altezza del ruolo? Niente di tutto questo. Pe­ter non è uno che se ne frega, ma cerca anche di non farsene una malattia. Al proprio fianco ha persone fidate, da Gio­vanni Lombardi, amico e manager da una vita, a Gabriele Uboldi, portavoce e responsabile comunicazione del corridore. Certo, prima della Pari­gi-Roubaix, si è confrontato con assoluta tranquillità sul tema della preparazione con il basco Patxi Vila, capo del­la struttura di allenamento della squadra tedesca comprendente comprendente quattro tecnici (quello che segue più da vicino Peter, a Monte­car­lo, è l’ex professionista polacco Sy­l­wester Szmyd, ndr). Dopo essersi chiarito le idee, Peter ha fatto quello che è solito fare: un bel punto e a capo. Ha voltato pagina e ha resettato tutto.

Il nuovo capitolo è co­minciato al Giro di California e proseguito con  il Giro di Svizzera (un successo per corsa). Il resto è cronaca recente: il Tour. La vittoria di tappa. La settima maglia verde: nessuno come lui. Storia.

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