PATXI VILA: «VI SPIEGO COME LAVORO CON PETER SAGAN»

PROFESSIONISTI | 19/01/2019 | 07:59
di Giulia De Maio

Se dietro un grande uomo di so­lito c’è una grande don­na, dietro a un campione c’è un gruppo di lavoro su­per affiatato. È il caso del “Team Peter”, composto dalle persone fondamentali per Peter Sa­gan. Suo fratello Juraj, il manager Giovanni Lombardi, il massaggiatore Maroš Hlad, l’addetto stampa Ga­briele Uboldi, il preparatore Sylwester Szmyd, i meccanici Jan Bachleda e Min­­daugas Goncaras, il direttore sportivo Ján Valach e il coach personale Patxi Vila. Con quest’ultimo, diesse della Bora Hansgrohe dal 2017, di cui il tre volte campione del mondo nella sua biografia My World parla un gran bene, abbiamo scoperto come lavora il fuoriclasse slovacco e quali traguardi ha messo nel mirino per questa stagione.


All’anagrafe ti chiami Francisco, ma per tutti in gruppo sei Patxi.
«Sì, è semplicemente il mio no­me in lingua basca. La mia fa­miglia arriva da Vera de Bi­da­soa, un paesino sui Pire­nei, che nel 1974 ha ospitato i mon­­diali di ciclocross e da quan­­do avevo 6 anni ai 19 è sem­pre stato sede di una tappa del Giro dei Paesi Baschi. Al­l’epoca il ciclismo era lo sport più seguito, fin da piccolo ho vo­luto diventare corridore. In casa erano soprattutto appassionati di calcio, un mio zio ha giocato nella serie A spagnola, altri due zii sono stati professionisti di pelota basca. Io da ragazzino ho fatto di tutto, ma il ciclismo è sempre stato il mio sport preferito. Oggi vivo a San Sebastian, sono sposato con Noemi, abbiamo due bimbe, Madi di 3 anni e Noa di 9».


La soddisfazione più grande che ti sei tol­to da corridore?
«L’unica vittoria che sono riuscito a cen­trare nella massima categoria: la terza tappa della Parigi-Nizza 2006. Mi ci è voluto tanto per ottenerla (sorride, ndr). Ho corso come professionista dal 2001 al 2012, ho difeso i colori di iBa­ne­sto.com, Lampre, Lampre-Caffita (poi Lampre-Fondital), De Rosa-Stac Plastic e Utensilnord-Named. Oggi nel mio lavoro cerco di fare del mio me­glio, di essere aperto agli stimoli e alle novità. Vorrei dare il mio contributo per cambiare il ciclismo come tecnico, la guerra stupida tra colleghi che vedo spesso non porta a nulla. Nel mio piccolo voglio aiutare il ciclismo e mi­gliorarlo».

Pedali ancora di frequente.
«Sì, ma meno di quanto vorrei. An­dare in bici mi fa pensare, le idee migliori mi vengono in sella. Durante i Grandi Giri cerco di uscire tut­ti i giorni: parto alle 6.45, quando tutti dormono per un’uscita di un paio d’ore. Al Tour dell’anno scorso sono uscito 17 volte su 21 tappe. Mi piace pensare al tipo di tap­pa che ci aspetta, in generale mi connette con il mondo e con me stesso».

Quando hai conosciuto Peter?
«All’ultimo mio anno da corridore. Il suo talento era evidente, ho subito avu­to la sensazione che fosse una bom­ba di energia. Abbiamo parlato per la pri­ma volta durante un ritiro della Tinkoff in Sicilia, qualche tempo dopo, quando io lavoravo per Specialized. Pedalam­mo per 3-4 ore, chiacchierando scoprimmo che avevamo alcuni amici in comune a Treviso. Per entrambi il vo­stro Paese è stato molto importante. Ge­neralmente tra noi ci parliamo in italiano... Quel giorno capii che era an­che molto determinato».

Nel suo libro racconta di come il tuo ap­proccio all’allenamento sia l’ideale per lui: scientifico ma non asfissiante.
«Ogni corridore è diverso, per tirare fuori il meglio da ognuno ci sono tanti metodi. Questa peculiarità dello sport è al tem­po stesso la bellezza del mio lavoro e l’aspetto più difficile. Capire cosa ha bisogno ognuno è la sfi­da. Certi atleti preferiscono avere l’allenamento pianificato nel dettaglio, altri necessitano più spazio. Peter è un artista che va ca­pito. Mi fa piacere essergli vicino, ma è suo il merito dei traguardi che ha raggiunto. Io posso suggerirgli che colore è meglio utilizzi per la prossima opera, ma il pennello in mano ce l’ha lui. Det­to questo, il ciclismo si è evoluto, so­prattutto nella preparazione e nell’approccio alla corsa quindi non si può lasciare nulla al caso».

In precedenza tra numeri, valori e tabelle maniacali aveva perso la voglia di correre.
«Nel 2015, alla Tinkoff, mi sono trovato davanti un ragazzo che aveva grandi mezzi e un grande talento, ma che sta­va vivendo un momento particolare. Io l’ho semplicemente tranquillizzato: an­che se non era riuscito a vincere lo stesso numero di corse dell’anno pri­ma, non significava certo che la sua carriera fosse finita. Ad essere sinceri, non ho mai creduto che potesse davvero ritirarsi. Sono stato fortunato ad averlo incontrato, adesso è un mostro e sarà uno degli atleti più ricordati della storia».

Quanti margini di crescita ha ancora?
«È difficile da dire perché come lui non c’è mai stato nessuno. Tutti gli atleti professionisti sono unici, sono eccezioni. Io ho frequentato l’università e ho studiato qualche libro, ma non ci sono delle regole valide per tutti. Di sicuro posso dire che non ha finito di crescere e stiamo lavorando in questa direzione. Quando un talento è “fuoriregola”, è difficile trovare una strada per mi­glio­rare ulteriormente, perché nessuno l’ha percorsa prima di lui, ma siamo qui ap­posta».

Com’è il vostro rapporto?
«Il divertimento è importante. Si lavora sodo, ma lo scherzo e la battuta non mancano mai. Siamo tutti consapevoli che siamo fortunatissimi a svolgere que­­sto lavoro, quindi dobbiamo godercelo. Ai miei corridori dico sempre che questa professione va svolta con passione e al 100%, ogni giorno, ma alla fi­ne si tratta solo di una gara di bici. Fon­damentalmente è un gioco e va pre­so così. Peter è una persona speciale, un atleta unico, non è comune. Quan­do vai a una gara sotto il bus ci sono mi­gliaia di persone ad attenderlo, il che è bellissimo ma tutto fuorché normale. Ascoltare le sue sensazioni è fondamentale».

Un pregio?
«È trasparente. Quello che vedete voi è quello che è Peter».

Un difetto?
«Non si rende conto di quanto è forte. A volte si arrabbia con gli altri durante le corse, ma non capisce che non tutto il mondo può fare quello che fa lui».

Se dovessi definirlo con tre parole?
«Onesto, autentico, forte».

Se fosse un animale?
«Sarebbe un leone».

Se fosse una pianta?
«Una quercia».

Se fosse un personaggio del passato?
«Un gladiatore».

Se fosse una parte della bici?
«La catena».

Per il 2019 che obiettivi vi siete posti?
«Sanremo, Fiandre e Roubaix sono i suoi obiettivi a cinque stelle per questa stagione. La seconda parte sarà impostata sul Tour de France. Personal­men­te io sono felice quando aiuto un mio corridore a non commettere gli sbagli che ho fatto io in passato e raggiungere i suoi limiti. Mi sono emozionato quan­do Bodnar ha vinto la crono della Gran­de Bouclecosì come quando Pe­ter ha vinto la Roubaix perché so quanto lavoro c’è dietro quei traguardi. Nel 2018 abbiamo chiuso al terzo posto al mondo tra le squadre più vincenti dopo soli due anni dalla nostra nascita, con 33 vittorie, ma si può sempre migliorare. Un rimpianto? Ci è mancato un successo alla Vuelta per completare il tris di vittorie nei Grandi Giri».

La prossima maglia iridata sarà in palio nello Yorkshire.
«Finché Peter correrà tutti penseranno a lui per il titolo mondiale. Le vittorie degli anni scorsi l’hanno fatto diventare il campione che è oggi. Il Mondiale in Inghilterra è un’altra grande opportunità per lui, sicuramente lavoreremo per arrivarci al massimo della condizione».

Mettiamo un attimo Peter da parte. Il 2019 sarà l’anno di...?
«Spero di Formolo. Davide è stato sfor­tunato al Giro, la foratura sull’Etna gli è costata varie posizioni in classifica. Dopo il suo primo anno con noi, sappiamo di dover cambiare qualcosa ed è stato giusto farlo dopo una reciproca conoscenza. Tra i tanti corridori che abbiamo è uno di quelli in cui riponiamo le maggiori speranze. Abbiamo svolto allenamenti e test anche in galleria del vento, per sviluppare la ricerca di materiali e migliorare la preparazione alle cronometro. Proveremo ad ave­re un approccio più aggressivo. Lui è un professionista, il ciclismo gli piace fin troppo. A volte va calmato, ma sia­mo ad un buon punto. Quest’anno lo rivedrete al Giro. Guardando in casa nostra vi segnalo anche Großschartner, scalatore austriaco del ’93, che ha davvero un motore fuori dal comune».

Un altro corridore italiano su cui scommetterebbe?
«Uno che vorrei allenare è Gianni Mo­scon. Sono curioso di scoprire che atleta diventerà. Adesso gli riesce tutto per il meglio, ma nei prossimi anni dovrà decidere il suo territorio di caccia. Le tre settimane sono difficili per tutti, ser­ve anche un forte atteggiamento men­tale. E credo che lui abbia la giusta mentalità. Ad oggi lo vedo perfetto per le Classiche delle Ardenne, per tecnica e modo di correre».

Cosa speri per il tuo futuro?
«Di vivere tranquillo. Con questo lavoro giri il mondo, conosci tante culture diverse e persone eccezionali, impari anche cinque lingue e sei sempre “a tutta”. È fantastico, ma la serenità è un’a­ltra cosa».

da tuttoBICI di gennaio

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