| 21/09/2007 | 00:00 Compie cinquanta anni domani, Giuseppe Saronni, 'Beppe' per antonomasia, uno dei più amati e vincenti ciclisti italiani degli ultimi 30 anni: ben 194 successi in una carriera professionistica che si è sviluppata dal 1977 al '90, con un esordio estremamente precoce ed un addio forse oltremodo anticipato. Saronni, l' enfant prodige del nostro ciclismo, in dichiarata antitesi a Francesco Moser, di sei anni più maturo, lui lombardo (anche se nato a Novara, in verità), e borghese, l'altro trentino e montanaro, lui sagace velocista, l'altro generoso fondista, lui razionale, l'altro emozionale, si presentò quale talento eccelso, su quel palcoscenico di riguardo che era la pista, già nel biennio '74-'75, con i titoli nazionali della velocità allievi ed juniores su pista. Professionista dal 1977, nella Scic, a soli 19 anni e mezzo, e poi leader della Gis, prima di approdare nel '82 alla Del Tongo-Colnago ed a quella divisa gialla che lo avrebbe accompagnato nei successi maggiori, Saronni ha al suo attivo 2 Giri d'Italia ( '79, '83), il Lombardia '82, la Sanremo '83, conquistata dopo tre secondi posti consecutivi ('78-'80), due Sei Giorni di Milano (’80 ed ’82, in coppia rispettivamente con Sercu e Pijnen), una Freccia Vallone ('80), un Campionato di Zurigo ('79), il Campionato italiano dell’80, il Campionato del Mondo di Goodwood, nel '82, una sfilza di classiche italiane, fra cui il Giro della Campania nel 1978 e nell’81.
«Sono arrivati inattesi, questi 50 anni, sai, come una di quelle salite che la cartina altimetrica della corsa non ti segnala’, la butta giù con nonchalance, Saronni, per mascherare una comprensibile emozione».
E 50 anni sono un momento di riflessione e di bilancio, ripensando innanzitutto ai momenti belli…
«Per fortuna ne ho avuti molti. Il Mondiale di Goodwood, quando mi parve di esorcizzare con quello scatto finale la delusione enorme provata l’ anno prima, a Praga, quando fui beffato da Freddy Maertens. O la ‘Sanremo’ del 1983, vinta da solo, con indosso la maglia iridata, come era successo solo a Gimondi ed a Merckx, ottima compagnia…Ma ancor più, a ben vedere, il primo Giro d’Italia, quello del 1978, conquistato a 21 anni e qualche mese, da vincitore più giovane di un Giro del dopoguerra…».
E le amarezze?
«Beh, non mancano neppure quelle. Pensa al secondo posto, già citato, contro
Maertens. O a quella Sanremo del 1980 quando ero convinto che bastasse battere Raas per arrivare primo, ed invece tutti e due fummo infilzati da Pierino Gavazzi….Ma il rammarico maggiore non è un secondo posto, forse, bensì un terzo. Quello al Giro d’Italia 1981, vinto da Battaglin, che io persi, e mi ci arrovello ancora, per una balorda cronometro finale».
Quali avversari ricorda con più ammirazione?
«Sono gli stessi che in corsa non avrei mai voluto affrontare, ma che poi ad una vittoria, ed anche ad una sconfitta, davano un sapore particolare. Per primo De Vlaeminck, un grandissimo, e poi Maertens, un rapace, ed Hinault, un gigante. E certo anche Francesco Moser, per quella grinta, quella determinazione in più che di sicuro Beppe Saronni non aveva…».
Oggi, da team manager della Lampre-Fondital, squadra di riferimento del nostro movimento, come vive il ciclismo?
«Lo vivo ancora con passione, certo. Ma è indiscutibile cogliere una serie di anomalie che devono essere assolutamente corrette, per non disperdere ulteriormente interesse e credibilità. Vede, la proliferazione smisurata delle corse non consente più all’appassionato di partecipare realmente al ciclismo e di coglierne il momento tecnico: pensi che la settimana scorsa si correvano in contemporanea la Vuelta, il Giro di Polonia, il Giro della Gran Bretagna, il Giro della Bulgaria, il Giro della Croazia, ed una serie di premondiali in Francia ed in Italia, assurdo…Per ridare significato al ciclismo bisogna ricreare i grandi appuntamenti nazionali, consentire al tifoso di poter vedere sulla strada i propri beniamini e viverne le rivalità. Come ai tempi nostri, Saronni contro Moser, Battaglin contro Baronchelli…».
C’è in gruppo un atleta nel quale ritrova un po’ di Saronni?
«Certo in Damiano Cunego, il vincitore del Giro 2004, riconosco la discrezione, la tranquillità, forse il carattere un po’ introverso che aveva Saronni da giovane. E mi auguro che ritorni presto ai vertici di rendimento degli anni scorsi».
E la più grande delusione, tra i suoi ragazzi?
«Più che una delusione, vi parlo a cuore aperto di un dispiacere immenso. Ed è il congedo dalla attività sportiva di Giuliano Figueras. Abbiamo fatto l’impossibile per tenerlo avvinto al ciclismo, per motivarlo a continuare nello sport, per assisterlo nella crisi psicologica che lo aveva colpito, ma non vi è stato nulla da fare. E’ scomparso. Sì, l’addio di questo ragazzo napoletano al ciclismo resta per me un dispiacere intimamente enorme. Mi auguro almeno che trovi nuove àncore salde, e lo dico da lombardo che con il Sud, e le sue corse, ha sempre avuto un feeling particolare. Pensate che la prima vittoria e l’ultima della mia carriera sono state ottenute in gare del Sud, il Pantalica nel '77 ed il Giro della Provincia di Reggio Calabria, nel ’90».
Ma il ciclismo, con i suoi problemi di doping, avrà futuro, o resterà solo passato?
«Il ciclismo attraversa da questo punto di vista un momento molto difficile, si sa. Ma mi creda, è come per tutti gli altri sport. L’unica differenza, o l’unico merito, è che il ciclismo nel doping non fa sconti. Aspettiamo ancora che in Spagna, sulla Operacion Puerto, il calcio, il tennis e l’atletica diano corpo o smentite ai dubbi. Resta però fondamentale, relativamente al doping nel ciclismo, l’esigenza che i comportamenti e le sanzioni siano uniformi. E non varino, ad esempio, da federazione a federazione. O da corsa a corsa. Basta con l’anarchia. E si affronti una volta per tutte il problema delle autorizzazioni all’utilizzo di certi farmaci, come gli antiasmatici ed i broncodilatatori: o sì o no, con segno netto. Ed evitiamo che l’esercizio del doping e dell’antidoping diventi solo una dimostrazione di parata e di potere, come certe volte al Tour».
«In ogni caso, anche con i capelli bianchi, come voi ci mettete le parole, io su questo sport che mi ha preso la vita ci metto ancora la faccia», ci assicura questo Saronni diventato, lui che sembrava destinato a restare giovane per sempre, davvero grande.
Gian Paolo Porreca (da Il Mattino, 21 settembre 2007)
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