Prudhomme: una corsa a 30 all'ora per difenderci dal doping

| 03/07/2007 | 00:00
«Tutto è possibile». Anche rivivere l’esperienza di un anno fa quando Christian Prudhomme, il patron del Tour, invitò le squadre che avevano atleti coinvolti nelle inchieste sul doping a lasciarli a casa e non fu una decisione semplice per chi costruisce un prodotto sulla qualità di chi vi partecipa. Senza Basso e Ullrich e l’intera squadra di Vinokourov, il primo Tour dopo l’era di Lance Armstrong perdeva i pezzi più importanti e ne avrebbe pagato il prezzo: negli Stati Uniti la Versus, la tv via cavo che trasmette la corsa francese, ebbe un crollo del 52% negli abbonamenti, la Zdf tedesca del 43, in Italia gli ascolti si inabissarono, persino in Francia ci fu un calo di 600 mila telespettatori. In attesa di raggiungere Londra questa mattina, Prudhomme non può essere un manager sereno. Quasi ogni giorno si parla di ciclisti dopati e si aggiungono le preoccupazioni per quanto accade in Inghilterra. «Ho piena fiducia nelle misure di sicurezza prese dal governo britannico e dalla città di Londra», dice questo giornalista di 47 anni che, dopo aver commentato il Tour alla tv francese, nel 2003 fu cooptato dagli organizzatori e per la 2ª volta lo dirigerà raccogliendo l’eredità di Jean-Marie Leblanc. Da quasi trent’anni si progettava di far partire la corsa da Londra. Una di quelle idee che piacciono agli sponsor e solleticano la dimensione internazionale della corsa più famosa e sciovinista del mondo. Purtroppo cade nel momento sbagliato. «Le tappe del Tour dipendono dalle candidature - spiega Prudhomme - e ne riceviamo più di 200 ogni anno. Londra si era candidata prima ancora di strappare l’organizzazione dei Giochi del 2012 a Parigi e noi l’accettammo. Sbaglia chi crede che sia un’operazione fatta per ristabilire i rapporti dopo quella lotta: non c’è alcun legame». E il doping? Teme di dover escludere altri corridori come fece l’anno scorso a Strasburgo? «Tutto è possibile dal momento che ci siamo opposti alla partecipazione di chi non firma la carta dell’Uci (quella in cui si dichiara di non avere niente a che fare con il doping, ndr). Ci sono situazioni sgradevoli ma la nostra determinazione di batterci contro gli imbroglioni è totale e non rimpiangiamo nulla: dobbiamo proteggere il Tour a qualsiasi prezzo. Nel 2006 prendemmo una decisione sconosciuta a qualunque altro sport perché il nostro rimane un avvenimento unico e magnifico che va difeso dai venti e dalle maree». Anche perché l’alternativa per le grandi corse è perdere in attenzione, ascolti, denaro. Gli scricchiolii si avvertono. Lo scandalo dell’ultimo Tour, con la vittoria ritirata a Landis, è fresco e sono nei guai i più recenti trionfatori al Giro: Basso squalificato per due anni, Di Luca indagato dal Coni per i rapporti con il dottor Santuccione. «Non mi chieda se per i grandi successi è diventato indispensabile doparsi, perché le rispondo che finché c’è chi non si dopa ci sarà comunque un vincitore. La certezza è che il ciclismo non ha bisogno del doping: cosa importa che si corra ai 50 o ai 30 all’ora? La difficoltà della prova non cambia, questo è uno sport di valori relativi, mica di record. Il mito del Tour si è nutrito di grandi exploit e di terribili crolli, non di prestazioni robotizzate da cui né il pubblico nè i media hanno qualcosa da guadagnare. Dunque è falso che ci si dopi per reggere un sport sempre più inumano e faticoso, così come nell’atletica leggera vedo più casi di doping in chi corre per 100 metri che in una maratona». Di questo passo però si arriva alla fine di tutto. «L’entusiasmo per il Tour è sempre presente ai bordi delle strade, invece quello per il ciclismo è visibilmente in declino: dobbiamo restituirgli interesse e credibilità». C’è chi sostiene che per fermare il doping debbano andarsene gli sponsor, così i corridori capiranno di farsi male da soli. Ma sarebbero in pericolo anche le grandi competizioni. «Non c’è un nostro partner che ci abbia lasciato per le rivelazioni di certi corridori. Se abbiamo rinnovato accordi e concluso nuove sponsorizzazioni è perché le tv e le aziende hanno valutato il nostro atteggiamento nei confronti del doping che consideriamo il principale nemico del ciclismo: condividono i nostri valori e aderiscono alle nostre azioni. Abbiamo partnership che durano da 26 anni e che attestano la nostra credibilità e le televisioni si sono ripresentate come sempre: avremo addirittura 17 Paesi che riceveranno per la prima volta le trasmissioni in arabo». Nessuna crisi, dice Prudhomme. Come il fruttivendolo non ammetterà mai che le sue mele hanno poco sapore. Eppure la crisi d’interesse c’è. Qualche campione è fermo, altri escludono il Tour dalla propria stagione e questo succede soprattutto ai nostri. Senza Petacchi, il migliore sarà Savoldelli che farà il gregario di Kloden e di Vinokourov: per gli appassionati italiani non ci sarà di che perdere il sonno. E forse Prudhomme oggi non ripeterebbe la frase su Armstrong, quando sosteneva che «la sua presenza non può dare niente di più al Tour e comunque bisogna prepararsi al giorno del suo ritiro». Un grande campione servirebbe ancora. «E’ il Tour che li crea - dice - e che di conseguenza costruisce la propria storia grazie a loro. Quando un grande corridore smette, ne arriva un altro: a volte bisogna attendere un po’ di tempo, come i belgi dopo Merckx o i francesi dopo Hinault. Tuttavia è vero che in questi tempi travagliati è più difficile crearli». Ha ragione Prudhomme, oggi il vero nemico del Tour è il doping. E l’etica, questa volta, non c’entra. da La Stampa del 3 luglio a firma Marco Ansaldo
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