"MINALIN" CONTINUA A CRESCERE

PROFESSIONISTI | 26/03/2018 | 07:33
Elia Viviani lo chiama Minalin perché è il piccolo Minali, fi­glio di quello più noto in giro per il mondo. Sarà giovane e non ancora famoso, però Riccardo so­gna in grande e sta rendendo orgoglioso papà Nicola, che negli anni ’90 ha vinto due Parigi-Tours e tappe a Giro, Tour e Vuelta. A 22 anni il veronese di Isola della Scala sprinta in scia ai big e, al secondo anno da professionista, ha finalmente rotto il ghiaccio. In ma­glia Astana è arrivato vicino alla vittoria al Dubai Tour e all’Abu Dhabi Tour, dimostrando di essere cresciuto molto, poi al Tour de Langkawi ha colpito e lo ha fatto due volte. Non è più un neopro: dopo un 2017 di apprendistato (un secondo po­sto e tre terzi conquistati) ha idee e am­bizioni ben chiare.

Riccardo, rispetto a un anno fa quanto sei cresciuto?
«Tanto, ho imparato moltissimo. Nel 2017 mi sono fatto le ossa, da subito la squadra mi ha dato fiducia, così mi so­no buttato in mezzo nelle volate. Quest’anno con il team ci siamo posti qualche obiettivo più concreto, le aspet­tative aumentano e a me fa piacere. Rispetto a quando ero dilettante, ho sopportato carichi di allenamento che prima non facevo, ho passato più tempo in palestra e ho disputato tante volate dietro macchina. Con il preparatore Maurizio Mazzoleni siamo andati a lavorare più nel dettaglio. Inoltre, grazie alla dietista Erika Lombardi sto fa­cendo at­tenzione all’alimentazione e  so­no riuscito a presentarmi al via delle corse più magro. Ho sempre avu­to problemi di peso, gra­zie ai suoi consigli quoti­dia­ni so cosa mangiare in base all’allenamento che svolgo e ne avverto i benefici. Se ap­pena passato professionista nelle salite non troppo lunghe, di 3-4 km, mi staccavo subito, oggi riesco a tenere duro e ad arrivare alla volata più fresco».

La tua prima stagione nella massima ca­tegoria è stata segnata dalla tragedia di Scar­poni, che ti aveva preso sotto la sua ala...

«Già. La morte di Michele è stata un botta per tutti. Dal primo ritiro a Mon­tecatini ero stato messo in camera con lui, in breve sono diventato il suo “cocco”, ero il più giovane del gruppo e lui l’uomo d’esperienza. Il bambino e il vecchietto, che coppia. Siamo diventati amici perché lui è stato fin da subito disponibile e carino nei miei confronti. Anche se in poco tem­po, mi ha insegnato tanto. Sapeva sempre trovare le parole giuste, trasmetteva tranquillità come nessun altro. So­prat­tutto aveva sempre quella voglia matta di sorridere. Ricorderò per sempre la sua chiamata il giorno prima dell’incidente: mi aveva telefonato perché era stato da poco il mio compleanno e in Croazia avevo colto un secondo po­sto. Voleva farmi gli auguri e dirmi di continuare così. È ingiusto che a quella chiamata non ne potranno seguire al­tre. È un vero peccato non averlo più al nostro fianco. Manca a tutti. Maledet­ta­­men­te».

Hai capito che corridore puoi diventare?

«Sono un velocista puro, adatto ai giri. I primi giorni di corsa sono sempre un po’ ingolfato, ma tappa dopo tappa va­do meglio. Non posso paragonarmi a un campione come Ca­vendish, ma per intenderci potrei ambire a diventare un atleta di quel genere. Le uniche classiche che un giorno potrei provare a vincere sono la Milano-Sanremo e la Pa­ris-Roubaix, due corse che però sono sempre un terno al lotto. Posso migliorare in tutto. Se in salita non si va, ci si stacca e addio volata, quindi il mio obiettivo è migliorare tenuta e resistenza nelle brevi ascese. Più riuscirò a su­perarle facilmente, più potrò sprintare con una buona gamba. Puoi essere esplosivo quanto vuoi, ma se arrivi finito allo sprint serve a poco».

Novità nella preparazione?

«L’unica differenza rispetto al passato è stato un maggiore lavoro in palestra, dal quale avverto un importante mi­glio­ramento. Ho svolto carichi di lavoro che simulano la volata dopo uno sforzo, uno sprint dopo una “menata”, in sostanza ho fatto più ripetute fino all’ultima con carichi più alti. Già dai primi ritiri dell’anno a Calpe ne ho sentito i benefici. A Dubai ho raccolto me­no risultati di quanto mi aspettassi, anche perché dovevo dividermi le occasioni con il mio compagno Cort Niel­sen, ma ho avuto sensazioni ottime. Ar­­rivare terzo mettendosi alle spalle no­mi come Cavendish, Degenkolb e Kittel è un risultatone, però cercavo di più. Di volate lineari, testa a testa con i big, ne ho fatte poche. La squadra è fondamentale: anche uno come Kittel che è il più potente del lotto, se i compagni non lo lanciano nella posizione giusta, perde. Nessuno ha lo scooter, abbiamo solo la forza dei nostri muscoli su cui poter contare. E il fare più volate prima di quella decisiva in genere si paga. Ho iniziato la stagione con la convinzione di poter vincere. Ci sono riuscito, ma non mi accontento».

Sei il campione nazionale di derny in ca­rica, frequenti ancora la pista?
«L’anno scorso ho disputato gli Eu­ro­pei Under 23, il Campionato Italiano e la Tre giorni di Pordenone, quest’anno farò ancora qualche corsa, ma sempre in ottica strada. Girare nei velodromi è molto importante per un velocista, personalmente vado una volta a settimana a Montichiari, per svolgere lavori che non si possono fare in strada, come i cambi di ritmo dietro moto. Il CT Villa è sempre molto disponibile».

Con chi ti alleni solitamente?
«Con un gruppo di dilettanti della Bas­sa veronese, con mio fratello Mi­chael, che è al primo anno tra gli Under 23 in maglia Colpack, e mio cugino Omar Leardini, che quest’anno ha ripreso a correre dopo che aveva smesso. Tra gli altri ci sono Attilio Viviani, En­rico Za­noncello, Carlo Alberto Gior­dani, Mi­chele Scartezzini... Abbiamo un gruppo su whatsapp e una pagina instagram dedicata, ci chiamiamo Balbus Monkey (scimmia balbuziente). Non siamo semplici compagni di allenamento, ma amici veri. Infatti capita che dopo 5-6 ore in bici assieme ci vediamo per fare due chiacchiere davanti a un aperitivino».

Prossime corse in programma?
«Dopola Malesia, vo­le­rò al Nord per disputare Scheldeprijs e Paris-Rou­baix. L’anno scorso ho debuttato all’Inferno del nord, una corsa che comprendi davvero solo quando la provi sulla tua pelle. Per me è stato come prendere pugni in ogni parte del corpo ad ogni tratto di pavè. Non sono riuscito a finirla. Quest’anno voglio ar­rivare al traguardo. Per giocartela da­vanti con gli specialisti ci vuole tempo e pazienza. A meno di non essere un fenomeno come Moscon, che alla pri­ma occasione ha rischiato di vincerla. Dopo le classiche correrò Giro di Po­lonia ed Eneco Tour, anche lì andrò a caccia di qualche buona volata».

Nessun grande giro?
«Al momento no, magari la Vuelta ma è ancora tutto da vedere. Correndo in un team proiettato alla classifica generale, per un velocista c’è poco spazio. La squadra del Giro d’Italia punterà tutto su Miguel Angel Lopez, mentre al Tour il capitano sarà Jakob Fuglsang. Chiaramente, da italiano, avrei voluto debuttare alla corsa rosa, anche perché il percorso di quest’anno offre diverse occasioni per i velocisti. Capisco però le esigenze della squadra e rispetto le scelte dei tecnici. Dovrò aspettare an­cora un po’ per vedere come reagisce il mio fisico sui 21 giorni...».

Quando non sei in bici, dove ti troviamo?

«Sul divano di casa, magari a schiacciare un pisolino. Ho una vita bella movimentata, così quando posso mi riposo. Sono un ragazzo tranquillo, mi piace trascorrere il tempo libero con gli amici e la mia ragazza. Sono tifoso del Milan, seguo il campionato di calcio e lo sport in generale. A Natale mi hanno regalato la Nintendo Switch, una piccola play­station che si può collegare alla tv. Me la porto dietro alle gare così passo il tempo quando non sappiamo che fare. Caratterialmente sono un buono. Odio litigare, se c’è un problema piuttosto lascio correre».

Con la scuola come sei messo?

«Ho studiato ragioneria ma purtroppo non sono riuscito a portare a termine gli studi. Non riuscivo a stare dietro sia alla bici che ai libri così ho scelto la prima. Un po’ di rimpianto c’è: sono stato stupido a farmi bocciare in 4a su­periore, poi mi sono iscritto alla scuola serale per portare a termine gli ultimi 2 anni, ho superato il quarto, ma alla se­ra arrivavo sempre stanco e facevo fatica ad assimilare nuove nozioni. Tra ritiri con la nazionale e la squadra ho ri­mandato l’ultimo anno, ma quando smetterò voglio prendere questo benedetto diploma».

Non ha senso che ti chieda chi ti ha trasmesso la passione per le due ruote...
«Da piccolo ve­devo papà correre, è stato un amore innato. Pensa che quando avevo un anno e mezzo mi facevo rimpicciolire il suo abbigliamento da nonna Teresa e lo aspettavo sulla porta di casa stressandolo perché a fine allenamento mi facesse fare un giretto in cortile. Ho iniziato a gareggiare da G1 e poi non ho più smesso. Ricordo che al termine della mia prima corsa ero su di giri perché pensavo di aver vinto invece mam­ma Monica mi dovette svelare la dura realtà: ero arrivato secondo, uno in fu­ga aveva già tagliato il traguardo in precedenza a braccia alzate (sorride, ndr). Un altro aneddoto riguarda la prima gara vinta: arrivai con un pedale solo, mi si sganciò un pedalino a 100 metri dall’arrivo e insistetti per non farmi superare. A 6 anni sono soddisfazioni...».

Papà cosa dice di come stai andando?

«C’è sempre, ma sta sulle sue. Mi la­scia fare, non si intromette, sia lui che io sappiamo che devo fare la mia strada. Mi dà qualche consiglio, ma non è il mio direttore sportivo e più di tanto non può fare. Dopo le corse ci sentiamo sempre. Mi dice bravo quando vinco, hai sbagliato qui e là quando perdo. Cerca di starsene abbastanza fuori, fa il papà, non il tecnico. Fin da quando ero piccolo non mi ha mai messo pressioni. A papà non servivano tanti “treni”, era capace di crearsi e conquistarsi il suo spazio e, da quel punto di vista, mi pare di somigliargli. Co­me mi ha insegnato lui, cerco di ascoltare e imparare da tutti, solo così si diventa grandi. Far meglio di pa­pà? Ci metterei la firma per vincere la metà di lui. Lui ha una palmares di tutto ri­spetto, ha vinto più di 50 corse in 10 an­ni, è stato uno dei mi­gliori velocisti al mon­do. È vero che erano altri tempi, il ciclismo di oggi è diverso, forse è ancora più difficile emergere, ma spero di renderlo orgoglioso di me. Ho iniziato a vincere, ma il bello deve ancora venire...».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di marzo

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