MOHORIC: IMPARARE, MIGLIORARE, CRESCERE

PROFESSIONISTI | 26/02/2018 | 07:11
Con le gambe, è sempre andato forte. Tanto da conquistare una medaglia d’oro ai Mondiali in linea tra gli Un­der 23, in Toscana. Quell’anno, era il 2013, riuscì nell’impresa di confermarsi dopo la doppietta di Limburgo di dodici mesi prima, quando vinse l’oro iridato in linea tra gli Junior, centrando an­che l’argento a cronometro.

Il motore di Matej Mohoric non è mai stato però solo in quei quadricipiti.
A mulinare ancora più veloce dei pedali sono sempre stati i suoi neuroni. Come tradisce quello sguardo da bambino vi­vace e curioso, rimasto tale anche oggi che di anni ne ha 24.

Il passaggio nel professionismo nel 2014 non disillude le promesse. Arriva in Cannondale e ci resta due anni e mez­zo, prima di giungere nel 2016 nel­la Lampre-Merida che poi trasmuta in UAE Emirates. Nel frattempo corre due volte Giro d’Italia e Milano-San­remo e tre Liegi-Bastogne-Liegi. Fa doppia esperienza anche alla Vuelta, che lo scorso anno chiude 30esimo, prima del passaggio alla Bahrein Merida.

Passaggio che rappresenta un nuovo inizio e si porta con sé stimoli e am­bizioni tutti da definire. O no?
«Il mio obiettivo principale per questo 2018 è sicuramente il Giro d’Italia. Proverò a fare be­ne e a dare una mano a Pozzo­vi­vo. La volontà è quella di portarlo sul podio».

Sei passato da una squadra araba a un’altra: hai già colto differenze?
«Sono stato davvero bene con la UAE Emirates. È un bel gruppo e ho sempre trovato tanta professionalità. Anche grazie a questo, non sono mai andato alle corse senza allegria. Qui al Team Bahrain-Merida ho ritrovato tan­te persone che conoscevo e devo dire che c’è proprio un bell’affiatamento. Credo che avrò più occasioni di esprimermi e di preparare le corse al me­glio».

L’entusiasmo non ti è mai mancato. Del resto, non è raro vederti col sorriso stampato in volto. Può essere proprio questa un’arma in più?
«Sì, in effetti sorrido spesso. Credo sia molto importante essere felici e tentare di esserlo. Cerco sempre il meglio nelle cose e nelle persone. Non so dire se questa sia in effetti una risorsa in più, ma così facendo mi sento bene. Quan­do ho una giornata no, non me la prendo più di tanto: la vita è breve ed è un peccato sprecare i giorni. Cerco sempre di trovare il meglio di quel che mi vie­ne offerto».

Il ritratto che fai di te stesso da dove nasce?
«Sono un ragazzo semplice, cresciuto in un piccolo paese di montagna in Slo­venia. I miei genitori, oltre al loro lavoro, hanno sempre avuto anche una fattoria da curare. Da piccolo li aiutavo ed è qualcosa che mi è sempre piaciuto fare. Anzi, dirò di più: in futuro mi piacerebbe tornare a lavorare nella natura. Mi piace andare in bicicletta e non solo con quella di strada. Penso anche alla mountain bike e al ciclocross».

Come ti definiresti?
«Quando mi metto a fare le cose, do sempre il cento per cento di me stesso: sono molto concentrato nel compito che intraprendo, mi considero quasi un perfezionista. Ma anche un ragazzo tranquillo, che va d’accordo con tutti e non è mai troppo stressato. Sono mol­to curioso e la mia curiosità ha contribuito a farmi piacere la scuola: lì avevo l’occasione di imparare».

Qual è stato il tuo percorso scolastico?
«Ho finito il liceo poco prima di passare professionista. Poi mi sono iscritto in un’università telematica danese. Ho iniziato applicandomi con costanza, so­prattutto durante il periodo invernale. Poi però, con l’inizio della stagione, di­ventava difficile dedicare tempo ed energie allo studio. In aggiunta, spesso mi capitava di non avere una buona connessione internet per seguire le le­zioni. Così ho finito per dire basta: l’ho detto, non mi piace fare le cose a metà».

C’è una porta aperta per una ripresa degli studi, nel tuo futuro?
«Non so se riprenderò. Di certo penso sia molto importante studiare. In ogni caso, spero nel mio domani di potermi creare una professione autonoma. E di riuscire a creare nuovi posti di lavoro».

Se non avessi fatto il ciclista, che lavoro avresti fatto?
«Non ne ho idea. A scuola mi piacevano i numeri, magari avrei studiato ingegneria. O forse avrei cercato un lavoro all’aria aperta. Penso che farei fatica a stare tutto il giorno in un ufficio, da­van­ti al computer».

Intanto, hai già raggiunto una buona di­mestichezza con le lingue. Quante ne parli?
«Bene l’inglese e da quando sono passato professionista anche l’italiano. Al liceo ho studiato il tedesco: riesco a leggere dei giornali e magari riuscirei anche a vedere qualche film in lingua, seppure non la parli bene. Ora vivo a Monaco e sto studiando il francese. An­dando a vivere in un paese straniero, mi sembra giusto farlo».

Il mondo ciclistico che hai trovato da professionista è tanto diverso da quello che ti immaginavi da bambino?
«In Slovenia il ciclismo non è poi così popolare. Almeno non come in Italia. Da bambino non seguivo lo sport e mai avrei pensato di diventare uno sportivo professionista. Quando ho iniziato a pe­dalare, non potevo sapere che sarebbe diventato il mio lavoro».

Insomma, non c’è tanto ciclismo nella tua infanzia?
«Sapevo dell’esistenza del Tour de Fran­ce e del Giro d’Italia, ma non se­gui­vo le corse. A casa avevamo solo 5 canali televisivi e mi capitava di guardare solo il Tour. Certo, dopo essere andato a scuola, di pomeriggio andavo in bici. Oppure aiutavo mio padre con gli animali e la campagna».

Poi, però, il tuo rapporto con il ciclismo è cambiato. Ed è divenuto più costante.
«Sì, e fin da piccolo ho corso tante gare in Italia. La prima volta avevo 13 anni. Ho corso in Friuli da Esordiente e poi anche in Veneto, Trentino e Toscana da Allievo. Da Juniores ormai correvo già gare internazionali in tutte le regioni. Poi ho vinto i mondiali a Firenze e so­no passato professionista con la Li­qui­gas Cannondale, una squadra completamente italiana».

Oggi, oltre al ciclismo, segui altri sport?
«No, non seguo altri sport. Ogni tanto mi capita di vedere qualcosa in tv, ma mai il calcio. Non mi piace. E anche i tifosi sono diversi».

Nel tuo tempo libero per cosa c’è spazio?
«Quando sono a casa, mi piace stare tranquillo. Dicevo poco fa: in questo periodo studio francese, ma adoro an­che cucinare. In tv preferisco i film o qualche gara di ciclismo. E poi mi pia­ce leggere».

L’ultimo libro?
«“Finding Ultra” di Rich Roll».

Film preferito e una canzone che ami più delle altre?
«Il mio film preferito è “I Origins”. Per quanto riguarda la musica, una canzone dei Coldplay: “Strabwerry Swing”».

La vita da professionista ti porta ad avere spesso la valigia pronta: cosa porti con te da queste esperienze in giro per il mondo?
«Ho visto realtà molto difficili e questo mi ha fatto riflettere sulla nostra fortuna. Di chi come me fa questo lavoro. Abbiamo tanto e forse qualcuno non ha idea di quanto siamo fortunati».

Brent Copeland, che ti aveva già avuto in Lampre, ha detto di te: “è uno dei corridori più intelligenti in gruppo”. L’intel­li­genza ciclistica può prescindere da quella dell’individuo?
«Penso che l’intelligenza ciclistica e quella della persona siano cose di­verse. Si possono avere due lauree, ma non “vedere” la corsa. Ma c’è di più. Credo conti molto l’intelligenza emotiva. È diverso se uno crea problemi oppure va d’accordo con le altre per­sone, se ma­gari ci pensa due volte prima di dire le cose o se sceglie altre modalità».

Da Juniores hai vinto tutto a livello mondiale. Quanto sarà difficile replicare o avvicinare quei successi tra i Pro?
«Correre tra gli juniores e correre tra i professionisti sono due cose differenti. Ho fatto tanta fatica nei primi anni da prof, ma adesso corro meglio. Non so se riuscirò a vincere come in precedenza, proprio perché il professionismo è molto diverso. Ma sono contento di poter fare il mio lavoro, di poter correre tra i migliori ciclisti del mondo. Sto lavorando per migliorarmi e voglio vedere fin dove posso arrivare. Sono concentrato su me stesso, sul mio lavoro. Il mio obiettivo è sempre dare il meglio di me stesso».

Cosa ti manca per arrivare al livello che pensi di poter raggiungere?
«Tanti chilometri nelle gambe e tanta esperienza. Il mio motto è uno so­lo: non si smette mai di imparare».

Se dovessi indicare un modello da seguire, una persona a te vicina a livello familiare o professionale, chi indicheresti?
«Non mi piace prendere a modello le persone, preferisco cercare il meglio di tutti e, grazie a questo, migliorare me stesso».

Tra 15 anni, sceso di sella, Matej dove sarà?
«Mi piacerebbe occuparmi della fattoria di famiglia e puntare sul biologico. Magari realizzando un agriturismo per ospitare anche tanti cicloturisti. O, forse, fare la guida nei boschi e continuare a divertirmi con la mountain bike».

Stefano Arosio, da tuttoBICI di febbraio
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