STORIA | 28/11/2017 | 07:04 Cadel, nato in un paesino minuscolo del nord dell’Australia, totale 98 abitanti, e Ivan, nato a Treviso, si può anche dire nato in un casolare del quartiere San Giuseppe o anche sul campo da gioco dell’oratorio di San Giuseppe. Cadel, il figlio unico, e Ivan, sesto di sei fratelli e in casa anche due sorelle. Cadel, cresciuto – l’unico bianco - in una comunità di neri aborigeni, e Ivan, che contro quei neri aborigeni – magari non proprio quelli lì - avrebbe giocato. Cadel, che un giorno vide suo padre uscire di casa e non lo vide tornare più, e Ivan, che una notte – troppo presto (nel 1999, non aveva neppure 32 anni) – se ne andò da questa terra.
Cadel, che a 14 anni alla tv scoprì il Tour de France e se ne innamorò, e Ivan, che il primo pallone ovale lo conobbe nella culla e lo adottò, lo gemellò, lo sposò. Cadel, che non aveva altro che la bicicletta e vedeva tutto rotondo, e Ivan, che aveva anche la bicicletta, ma vedeva tutto soltanto ovale. Cadel, che cominciò a gareggiare nella mountain bike, finché provò a cimentarsi anche su strada, fra giri e classiche, e Ivan, che cominciò a giocare nel Tarvisium, finché un arbitro – Natalino Cadamuro, internazionale – gli assegnò la maglia numero 9, quella del mediano di mischia. Cadel, che non aveva né la stazza né l’aspetto del campione (1,74 per 68), addirittura Gianni Mura (“la Repubblica”) scrisse che “sembra piuttosto un meccanico”, e Ivan, che era normale (1,78 per 80), aveva i capelli al vento anche in giornate di calma piatto, perché aveva il vento dentro, ed era il vento del rugby. Cadel, che al suo primo Giro d’Italia (nel 2002) conquistò la maglia rosa, a sorpresa, e poi la perse, per una crisi così profonda da sprofondare negli annali del ciclismo, e Ivan, che esordì in serie A a 19 anni, alla fine del campionato la sua squadra (il Tarvisium) retrocesse, invece lui decollò al Benetton. Cadel, campione del mondo nel 2009 e vincitore del Tour de France nel 2011, e Ivan, quattro scudetti (1989, 1992, 1997 e 1998), una Coppa Italia (1998) e con l’Italia una Coppa Fira (1995). Cadel, che in bici sapeva soffrire più degli altri, più di tutti, e Ivan, che all’esordio in Nazionale (nel 1990 contro la Romania a Padova) uscì dalla mischia con il pallone in mano, fintò il passaggio, poi, con uno scatto bruciante, mise in atto una fuga dalla parte chiusa, sul filo della linea laterale, e si catapultò oltre quella di fondo, e segnò la meta, tutti scattarono in piedi e l’ovazione sembrò non dover mai finire.
Cadel, che della sua onestà ha fatto una bandiera, e della sua pulizia un simbolo, tanto da poter dichiarare, senza reticenze e senza ipocrisie, “il doping è una merda”, e Ivan, che era la gioia di vivere, e la gioia di giocare. Cadel, che andava a letto presto, e Ivan, che tirava tardi. Cadel, che adesso lavora nel ciclismo per la Bmc, e Ivan, che forma i giovani rugbisti in un’accademia intitolata a suo nome e cognome.
Cadel, soprannominato “Cuddles”, coccole, e Ivan, ovviamente Ivan “il terribile”, ma anche Ivan “il selvaggio”, detto perfino “Tarzan”, forse per la faccia da duro, la mascella forte, i capelli neri. Cadel Evans e Ivan Francescato: così naturali, semplici, genuini. Prima o poi Cadel e Ivan avrebbero dovuto incontrarsi. E’ successo poi, solo una settimana fa, quando a Lugano, nella Villa Castagnola, l’Associazione sportiva svizzera italiana Rugby Sevens (As Sirs) ha conferito a Cadel il premio alla carriera “Una vita per lo sport” in ricordo di Ivan. Il premio era già andato, fra gli altri, a Dino Meneghin (basket), Giacomo Agostini (motociclismo) e Jury Chechi (ginnastica). Per Cadel, un bel traguardo, anzi, una bella meta.
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