Editoriale
«E.P.O.»: Eroi Per Ora. È ancora possibile emozionarsi per un’impresa sportiva senza chiedersi con quali mezzi sia stata ottenuta? E soprattutto, siamo ancora sicuri che lo sport riesca a tenere ancora lontani dalla droga? Gian Paolo Ormezzano, giornalista, scrittore, uomo di cultura e di sport - e consentitecelo - nostra firma di punta, da anni sostiene che se in uno sport celebrato non c’è doping è semplicemente perché non c’è antidoping. Lo scandalo che ha travolto il mondo del calcio non ha fatto altro che confermare questa sua intuizione. Ormezzano - ahimé - aveva visto giusto. Ora tutti sono pronti a dire la loro. I corridori sono vittime del sistema, questi però hanno contribuito a crearlo (il sistema), i team manager hanno le loro responsabilità, gli sponsor non sono esenti da critiche, i medici sono tutti da rinchiudere, i preparatori da cacciare come i mercanti dal Tempio e via discorrendo. Sempre Ormezzano ha proposto a tutti i giornalisti che si occupano di sport - e di doping - di difendersi scrivendo dopo la firma di un articolo, in cui si celebra un campione e la sua impresa, la sigla «s.d.»: salvo doping. O più semplicemente, diciamo noi, «E.P.O.»: Eroi Per Ora.

I ciclisti tornino a fare i corridori. Non abbiamo mai sposato la tesi per la quale i corridori sono solo delle vittime. Sono certamente delle belle «cavie», su questo non ci sono dubbi, ma anche loro hanno una buona dose di responsabilità e chi dice il contrario non fa altro che fare del facile populismo. E questo lo dico alla luce di un grosso tormento che mi ha pervaso la mente e il cuore in occasione dell’ultimo Tour de France. Si sbagliano di grosso i corridori che pensano che i giornalisti godano a scrivere delle torbide vicende di doping. In Francia, in più di un’occasione, ci siamo trovati a guardarci negli occhi quasi sgomenti, come se qualcuno stesse cercando di rovinarci il giocattolo. E, ad istinto, così era. Da una parte il nostro Pantani, fantastico protagonista nella corsa più importante del mondo; dall’altra la magistratura ordinaria e i gendarmi che rendevano tutto surreale. Lo confesso: c’è stato un momento in cui ho pensato che si trattasse di un sopruso, di un atto vandalico operato dalle forze dell’ordine all’indirizzo di un gruppo di ragazzi che altro non volevano fare che svolgere liberamente il loro lavoro. Mi sono anche indignato. Ma questo sentimento mi ha fortunatamente permeato la mente per poco tempo. Con Cristiano Gatti, caro compagno di viaggio, ebbi anche un duro scambio di opinioni: «Usa il buon senso: quì c’è di mezzo una legge di Stato. La magistratura francese sta solo facendo il suo mestiere codice alla mano», mi disse spazientito. Non vi nascondo che faticai non poco a digerire l’evidenza. Davanti a me si profilava già un futuro tetro: senza ciclismo, ciclisti, Tour, Giro e quant’altro. E io, che di ciclismo sono semplicemente malato, non riuscivo a sopportare l’idea di quell’intrusione gendarmeriale nel mondo del ciclismo. Quel giorno uscii alterato dalla sala stampa di Aix-les-Bains. I corridori stavano procedendo - a dispetto di tutti - a passo d’uomo; i miei pensieri invece volavano velocissimi lontano dalla ragione. Mi fu però sufficiente incontrare un ex corridore, che mi fermò spiegandomi una serie di concetti tutti di matrice medica e farmacologica: Ph, densità del sangue, acidità delle urine in un vero delirio. Rientrai di corsa in sala stampa e, dopo aver superato uno choc anafilattico meglio conosciuto come «sindrome di Fonzie» (come è difficile ammettere i propri errori... ) chiesi scusa a Cristiano. Avevo parlato con un corridore che faticava a spiegarmi l’importanza delle ruote a razze e di un telaio in alluminio, ma in compenso sapeva tutto di formule chimiche, misture farmacologiche. Fu in quel momento che capii chiaramente che i ciclisti non sono affatto vittime del sistema e che hanno il dovere di riappropriarsi di una nuova coscienza sportiva che, fino a prova contraria, poggia ancora sulla lealtà. Parafrasando Zeman: i ciclisti devono uscire dalle farmacie e tornare in bicicletta.

Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Avevo affrontato il problema del movimento femminile lo scorso mese di maggio e in quella circostanza le mie parole furono in gran parte fraintese. Avevo cercato di evidenziare il rischio di un tracollo finanziario. Mi era parso di capire che il movimento fosse sovradimensionato a livello di investimenti (leggi ingaggi, spese di gestione). Cifre da capogiro (anche 300 milioni l’anno), squadre con budget semplicemente folli (anche da 2 miliardi). Oggi, a pochi mesi di distanza, la situazione è sotto gli occhi di tutti: squadre con bilanci da «profondo rosso»; ragazze che non hanno visto il becco di un quattrino; altre che si sono viste pagare solo alcune mensilità; Fabiana Luperini, la nostra più grande interprete, costretta a bussare - suo malgrado - alla porta di nuovi sponsor. Ho letto che potrebbe arrivare in soccorso anche un’azienda di prestigio come la Mapei, cosa che noi auspicavamo, e ci auguriamo caldamente che possa trovare il suo compimento. Avanti Mapei, Polti, Asics, e chi più ne ha più ne metta. Vedere team professionistici che aprono i loro orizzonti anche al ciclismo femminile è semplicemente beneaugurante: questo sarebbe davvero un passo importante verso una nuova dimensione e una autentica valorizzazione di questa categoria. Tornando ai costi, il ciclismo femminile aveva proprio perso la bussola, il senso della misura e della realtà. Le ragazze, oggi, non hanno bisogno di una valanga di quattrini che poi regolarmente non vengono elargiti. Hanno piuttosto bisogno di certezze: pagamenti regolari, strutture organizzative all’altezza della situazione, gare di prestigio. Forse in un domani molto prossimo il movimento femminile potrà godere dell’etichetta di «professionismo», ma per raggiungere tale qualifica occorre che il movimento si organizzi adeguatamente. La Lega, quella dei colleghi maschietti, sta vivendo momenti di grande travaglio. La crisi che il dottor Paolo Vantellini si è trovato a dover fronteggiare è più difficile del previsto. Le donne hanno l’opportunità di segnare una nuova strada, di dare un’esempio: di coerenza, lungimiranza ed efficacia. Da sempre molti dicono che le donne sono più concrete. Io sono tra questi.

Pier Augusto Stagi
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