Quei ragazzi che aspettavano il Giro...
di Gian Paolo Porreca
Si chiamava Mese Mariano, il mese di maggio.Si diceva che era il mese delle rose, non solo della Madonna. Per noi, in quel tempo in cui si formava la nostra memoria, era solo il tempo del Giro d’Italia. Il tempo in cui nevicava, come sul Bondone di Gaul, nel ’56. O faceva caldo, tanto caldo, come nel Giro di Pambianco, nel ’61. Dal ’61 al ’99, ad oggi, Dio mio, come sono passati gli anni. Ed invano, se non c’è più lo Sport Illustrato. Invano, se siamo ancora qui a stringerci al tepore del ricordo. Già, quella sensazione fisiologica del ricordare meglio il passato lontano, di quello vicino; non è meglio per tutti, in ogni caso, tenere a mente Merckx più che Saronni?
«Restate piccoli», ci ammoniva quella vecchia nonna, malinconicamente avvolta nel suo scialle di lana traforata. E chi l’avrebbe mai detto che un giorno l’avremmo riferita pure al ciclismo, questa lezione pascoliana...
L’ultimo Giro del secolo: e ti viene da chiederti se tu saresti stato uguale, o migliore o peggiore, senza il ciclismo, e senza quella che ora è la più alta trasposizione, per un ragazzino italiano. L’ultimo Giro del secolo. E ti accorgi sempre più, vorremmo renderne consapevoli i nostri lettori, che l’eredità che portiamo dentro è un’eredità culturale, sentimentale, più ancora che agonistica. E che di quella innazitutto proviamo viva, lancinante la nostalgia. Una geografia dei valori, il Giro d’Italia.Una rosa per diventare migliori, la corsa della Gazzetta.Una illusione, una delusione...
O forse solo una disillusione, come chi ha creduto a Babbo Natale e alla luna nel pozzo. Per cui una volta abbiamo sofferto per quel Fornara da Borgomanero, e decidemmo allora di chiamarci Pasqualino come nome d’arte per almeno un paio di estati.E un’altra volta giurammo che la donna definitiva della nostra vita sarebbe stata solo quella in grado di rispondere al come e perché un belga di nome Van Roosbroeck si fosse aggiudicato una tappa del Giro del ’73...
Lì, dove neanche De Zan senior può gareggiare, e il buon Cassani va in debito di generazione, sarà questione di età o di letture o di diverse compagnie, vengono forse meno gli interlocutori. Ed è più naturale sentirsi soli.
Nel 1999, nel salutare la partenza di un Giro difficile, l’ultimo del secolo che finisce, il primo del doping che vorremmo finito, nello stringere grati la mano a Castellano e a Cannavò, desidereremmo ancora il contributo inalienabile di certi riferimenti.Rischiamo la banalità, ma ci manca sempre più Bruno Raschi: da ascoltare ogni sera. E ci chiediamo perché una persona raffinata come l’avvocato Ingrillì non raccomandi a ciascuno dei suoi iscritti la lettura - gliene regaliamo una copia? - di Ronda di notte dell’indimenticabile giornalista di Borgotaro. Quella civiltà del ciclismo avrebbe saputo respingere l’Epo dal suo tempio!
Aspettavamo ogni anno il Giro, in certe stagioni, quasi per fare pace con la vita di tutti i giorni.Torriani, Raschi, Negri, Gianoli erano gli idoli di chi era cresciuto a «pane e Gazzetta», con un po’ di quel cioccolato nocciolato che allora, negli empori di paese, si vendeva accanto al formaggino. Ed era un anno migliore, quello in cui il Giro passava sotto casa: a Monte di Procida, con Maertens e Moser nel ’77, due giorni addirittura, troppa grazia, un corridore garbatissimo di nome Marchetti, gregario di Moser.
O quella volta, un po’ più lontana, a Roccaraso nel ’76, primo Fabrizio Fabbri, io con la ragazza che sarebbe diventata mia moglie, l’amicizia con Raschi: «Bruno, vorrei conoscere Caminiti, mi piace moltissimo come scrive, sai». Non c’era gelosia tra i grandi, Caminiti era ad un tavolo con Facetti e Maspes.
«Buonasera, dottor Caminiti, complimenti per quello che scrive». «La ringrazio, dottore».E guardando la ragazza che avevo al fianco, «congratulazioni a lei, invece, che ha trovato una donna che la segue nella passione per il ciclismo, è una fortuna, mi creda».
Allora non lo sapevo mica.Ma se la mia vita è stata tutta coniugata ai modi del ciclismo, ai colori del Giro, avevo già trovato quella sera la mia maglia rosa. «Ma come vinse Van Roosbroeck?».Almeno lei, la madre delle mie bambine, nei giorni di maggio, se lo ricorda ancora.
Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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