L’episodio - o esipodio? - del ciclista Massimiliano Mori e del suo direttore sportivo Gabriele Di Francesco, alle prese con un qui pro quo di campioni di urine ad hoc per l’antidoping, nell’ultima Tirreno-Adriatico, merita un filo di nota. E non solo di doverosa, prevedibile censura. Perché questo aspetto è oltre modo scontato, al di là della curiosità circa la patologia per cui il direttore sportivo della Formaggi Pinzolo era costretto a girare con le urine al seguito e sulla valutazione che Primo Mori, già luogotenente di Gimondi nella Salvarani e vincitore di una tappa del Tour ’70, il padre appunto di Massimiliano, può dare di un siffatto evento, alla luce della sua esperienza ciclistica precedente.
In un tempo dove si mitizza il totem di un doping tracotante, ultrascientifico, meditatissimo, è discretamente confortante - e non suoni questa una provocazione - che nel ciclismo si ritorni, o si sospetti almeno il ritorno, ad una elementare pratica di inquinamento, o diluizione, delle prove.
Il complice scambio delle provette, al di là di un losco chiacchiericcio innescato da Tonkov, dopo la sospensione di Forconi a Lugano, in calce alla conclusione del Giro d’Italia vinto da Pantani - capitano di Forconi - nel ’98, resta in fondo una pratica confinata al passato: e come tale pervasa di una sorta di antica dignità. Una frode, sì, ma non sfrontata. Un inganno diciamo sostenibile, come le versioni che si nascondevano nei vocabolari al liceo classico. Un escamotage di destrezza, ma senza arroganza. La memoria è tornata a Michel Pollentier, il corridore belga della Flandria, con molte varici di gamba e pochi capelli in testa, che aveva vinto a sorpresa il Giro d’Italia del ’77 e che al Tour del ’78, nella tappa che arrivava all’Alpe d’Huez e che gli avrebbe consentito di indossare la maglia gialla, fu sorpreso con un complicato sistema di tubicini e provette fissato alla pelle - “protetto da maglie e magliette, nonostante il solleone, come dovesse correre il Giro delle Fiandre”, ricorda Negri - per poter utilizzare urina ‘pulita’, di altra provenienza, all’antidoping...
Ma l’aneddotica in merito riserva qualche altra spigolatura d’epoca che ci par giusto rammentare ai più giovani e anche a chi del doping e dell’antidoping intenda solo il prioritario contenuto etico.
Il diritto d’autore, innanzitutto, del marchingegno sorpreso addosso a Pollentier spetta all’olandese Gerben Karstens, che dopo la vittoria nella Tours-Versailles del 1974, allo sprint su Francesco Moser, fu appunto ‘smontato’ da tubi e tubicini dal dottor De Modenard, con tanto di squalifica e vittoria a tavolino al nostro campione. Ed ancora il fantasioso corridore olandese, il figlio del ricco notaio di Leida arrivato al ciclismo perché la domenica non voleva andare a Messa con i genitori, riserva nel suo palmarès alla voce ‘segni particolari: doping’ un paio di risvolti francamente divertenti. Il primo, il più noto, risale al 1969, quando Karstens trionfò su Monseré in un indimenticato Giro di Lombardia. Anche in quella occasione Karstens restò nelle maglie dell’antidoping, positivo per amfetamine, e a suo dire però per troppa leggerezza: già, il corridore della Peugeot giustificò allora il suo peccato farmacologico con un ennesimo vietato scambio di urine, per il desiderio di non perdere troppo tempo all’antidoping e tornarsene subito in albergo. Ma la sfortuna volle che il campione di urine preso in prestito glielo avesse fornito il massaggiatore olandese della Caballero, che guarda caso era cronicamente imbottito di amfetamine appunto, per la sua abitudine di guidare l’auto di notte, da kermesse a kermesse nelle Fiandre, e dover restare ben sveglio al volante!
Il top di questo revival di aneddoti karstensiani, non scevri da una loro nota di accattivante diavoleria, resta però quella volta in un Tour de France degli anni ’70. Quando il dottor Dumas, il celebre medico del Tour e primo fautore dei controlli obbligatori nella Grande Boucle, si presentò ad un ritrovo di partenza di una tappa, a distanza da qualche giorno da un controllo, per dirgli: «complimenti, monsieur Karstens, lei è incinto!». E giù a ridere - perché allora forse lo si poteva fare, in un rapporto paritario di guardie e ladri, senza avvocati e periti di parte lautamente pagati per spacciare ipocrisie -, dopo l’ovvio rimbrotto e la multa salatissima.
Perché il nostro vecchio amico, con il timore di far esaminare le sue urine verosimilmente cariche degli eccitanti dell’epoca, si era fatto prestare un campione di urine da una sua amica giornalista. Ancora ignara, la signora, di essere però in stato interessante!
E infine, solo per chiudere con un’ulteriore sdrammatizzazione questa pagina che firmiamo con simpatia, vi ricordiamo che la tappa del Tour in cui si eseguì il primo controllo antidoping della storia, la Bordeaux-Bayonne del 1966, fu appunto vinta in volata da Gerben Karstens. E non poteva di certo, col senno e un briciolo di nostalgia del poi, trovare un vincitore più in sintonia.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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