Al Ministro della Sanità Chiarissimo Professor Umberto Veronesi
Chiarissimo Professore, mi scusi se mi rivolgo a Lei da un continente per concetto lieve, come lo sport, rispetto al tema drammatico della malattia.
E da un suo recinto per giunta ancor più gioioso, quale era e quale certo non è più il ciclismo. Vede, illustre Professore, questo mondo di competizione, di confronto giovanile, di emozione ed edificazione sentimentale non è più quello stesso che anch’Ella ha conosciuto. Non è più lo stesso, in particolar modo, ribadiamo, proprio per il nostro beneamato ciclismo, da quando, intorno ai primi anni ’80, la penetrazione nel gruppo, favorita da un abile Ulisse, di un plotoncino di alchimisti del sangue, laureati in medicina e talora docenti universitari e talora ancora benedetti dalle istituzioni sportive di allora, rese condizione obbligatoria per vincere, se non per partecipare alla scorciatoia farmacologica. L’Italia divenne, allora, protagonista, con vincitori recidivi di classiche in linea e recordman del mondo e trionfatori in tarda età in estenuanti gare a tappe. Era la manna dolosa, annunciata dall’autoemotrasfusione, dell’eritropoietina di sintesi, l’Epo, creata nobilmente per le anemie dei dializzati ed usata ignobilmente, con tanto di percentuale sui guadagni eventuali, per vincere uno sprint o una 50 km di fondo. Era l’inaugurazione di uno sport di resistenza falsificato, corso ad ematocriti fuori scala ed a sangue denso come conserva e ad arterie flagellate, come a suo tempo denunciammo, per l’incredibile incidenza delle trombosi vascolari negli atleti di una stessa famigerata squadra ciclistica.
Caro Professore, da allora sono passati alcuni anni e l’attenzione al problema dello sport pulito inteso quale battaglia di civiltà e focalizzata innanzitutto al depistage nei controlli antidoping sulle urine e sul sangue dell’Epo di sintesi, ha appassionato scienziati e ricercatori. Del mondo intero. Dalla Francia, in prima linea su questo versante, all’Australia. Passando per i paesi scandinavi e gli Stati Uniti, per la Cina e l’Olanda. E registrando, malinconicamente, come si può evincere dall’elenco degli studiosi «di chiara fama» convocati nel summit del Cio e dagli osservatori particolari dell’Agenzia Mondiale Antidoping, la totale latitanza dei medici dello sport e dei medici in senso lato - biologi, farmacologi, nefrologi - italiani.
Caro Professore, questa situazione di scadimento e disaffezione da parte dei nostri colleghi in merito a tale dibattito volto al futuro ed al «meglio» ci lascia profondamente sconcertati. E le chiediamo innanzitutto di intervenire in merito. Incentivando la ricerca sull’argomento, si tratti di investigare sulla Epo o sul Gh, l’ormone della crescita. Dando mandato a controlli sulle forniture e sui mercati sospetti di Epo e Gh, dal produttore al consumatore, senza passare forse per le obbligatorie ricettazioni? Coinvolgendo ancora le scuole e i centri giovanili, nel discutere ed esorcizzare questa degenerazione morale. Perché il doping è una mentalità di fondo. È una indecorosa falsificazione dei valori della vita solo applicata allo sport. È un habitus di prevaricazione illecita che vi renderà cittadini in senso lato disonesti.
Caro Professore, noi non Le chiediamo di seguirci per le nostre strade purtroppo tortuose, alla ricerca di una verità su Pantani e sul suo profilo ematochimico che ha allarmato l’entourage scientifico del Coni. Quella è una storia in ogni caso amara ed assai poco edificante. Dove un eccesso di zelo può forse simulare un potere altezzoso. Ma dove sarebbe stato in assoluto assai meglio, per quel campione tanto popolare, non indurre sospetto alcuno negli esaminatori. Non le chiediamo un intervento specifico.
Di certo, invece, sulla sua scrivania potrà giudicare in questi giorni i meriti del dossier della Commissione scientifica del Coni sull’abuso del Gh di sintesi in molti sportivi italiani di vertice, non solo ciclisti, ma nuotatori innanzitutto ed atleti. Ed allarmarsi spontaneamente sull’incredibile percentuale di miocardiopatie dilatative - ascrivibili all’uso incongruo di Gh? - riscontrate in questi ragazzi.
Sarà questo un nuovo, drammatico punto di allarme. Come quello, ripetiamo, che su queste stesse colonne lanciammo nel ’96 sull’inedita epidemia di arteriopatie obliteranti - da Epo? - in ciclisti professionisti. Così come un altro ben noto elemento di perplessità, infine, nell’ambito di una medicina applicata allo sport, e costituito dall’incredibile numero di certificati medici che consentono l’utilizzo «a scopo terapeutico» di particolari sostanze - betabloccanti, corticosteroidi - che sarebbero considerate dopanti e vietate, in assenza di siffatte prescrizioni! L’asma bronchiale, caro Ministro, è diventata la malattia professionale del ciclista del XXI secolo: colpa dell’inquinamento ambientale o della malizia?
Caro Professore, ci fermiamo qui. Il suo tempo, l’abbiamo vista ed ammirata di persona in sala operatoria, è ben altrimenti prezioso. Ma lo sport italiano, vede, il ciclismo innanzitutto, non ha buone istituzioni ed ha un parterre di cortigiani, anche nei mass-media, spesso disgustoso se non connivente. E si fregia di un ministro part time che ha la gratuità di un bjioux, poco altro. E c’è il sospetto che la sua principale malattia sia quella di aver dato ospitalità a tanti medici peggiori.
Perciò, caro Professore, a Lei che come noi pensa che «la scienza serva all’uomo» e non viceversa, chiediamo l’autorità di un aiuto. Di un intervento che non induca contraddittorio di parte. Come la creazione, nel suo dicastero, di un osservatorio ex cathedra.
Perché «lo sport serva al corpo umano». E non viceversa. E non oltre.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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