Rapporti&Relazioni
Quell’abito un po’ comico di chi fa ciclismo
di Gian Paolo Ormezzano

Forse lo abbiamo già scritto, sicuramente non ne scriveremo mai abbastanza: le uniformi ciclistiche - da gara o da escursione o da pedalata personale ma seria - sono comiche. Neanche brutte però di un brutto divertente: comiche. Purtroppo l’estate porta un aumento di queste visioni comiche.
Parliamo delle uniformi che scimmiottano (o si preferisce dire: imitano?) quelle dei professionisti, dunque che sono tutto un arlecchinamento di colori forti, di scritte deboli. Le uniformi dei professionisti sono comiche, e infatti ognuno di loro non vede l’ora di sostituire la sua con una maglia rosa o gialla o iridata o tricolore o semplicemente azzurra, disposto poi a transare addirittura per una maglia a pois se si trova al Tour de France, una maglia ciclamino se si trova al Giro d’Italia (mai pensato che certi accanimenti per certe graduatorie rappresentate da certe maglie nascano dalla voglia di abbandonare quella certa maglia comica, più che dalla caccia a premi che spesso sono esili assai?).

Pensateci bene, cioè pensate male: è difficile mettere insieme una divisa da gara più comica di quella dei ciclisti. Le scritte pubblicitarie poi sono esoteriche, per pochi: parlano di produzioni e prodotti di cui spesso nessuno sa nulla, parlano per sigle, per nomi di industrie o di industriali. Quando sono chiare, esplicite, dicono di una cosa rintracciabile, toccabile o comunque frequentabile, sono di solito straniere. Neanche le tute ignifughe dei piloti di Formula 1, così lardellate di pubblicità, riescono ad avvicinare, diciamo soltanto avvicinare, la comicità delle divise ciclistiche: anche perché i piloti hanno addosso quella ieraticità da pericolo che i ciclisti non riescono ad assumere, pur se magari ci sono più rischi a gettarsi giù da una discesa o a disputare i centimetri in una volata che a girare in un circuito supersicuro, dentro involucri superprotetti.

La comicità delle divise da gara può avere una sua giustificazione: cromatismi che devono assicurare una resta televisiva, tanti sponsor da pochi soldi e dunque abbondanza di scritte. Ma perché l’imitazione per le strade da parte dei ciclisti qualunque? Imitare il campione è possibile in vari modi, senza dover far ridere. Oppure è impossibile, e allora amen. I calciofili, i calciatori dilettanti, portano le maglie dei loro campioni, è vero, ma sono sempre maglie sobrie, anche se ultimamente gli sponsor hanno picchiato un po’ con le loro trovate, i loro cambiamenti per succhiar denaro ai patiti, ai collezionisti. In ogni caso, una maglia di calciatore è in linea di massima sempre cromaticamente ed esteticamente sopportabile, fatto salvo ovviamente il diritto di ognuno di ritenere orrenda quella della squadra a lui particolarmente odiosa.

Penso a sciami di ciclisti in divisa monocromatica, o con cromatismi di alta fantasia ed allegria, affascinanti, divertenti, non comici (i ciclisti e le ciclistesse statunitensi, ad esempio). Poi sono pronto a pagare qualcosa di mio per una fondazione che metta allo studio scarpette da ciclista che non costringano il bipede, giù di sella, a camminare in maniera buffa: tacchetti rientranti, o che altro.
Che poi noi diciamo ciclista, e intendiamo uno che va in bicicletta. Ma quale bicicletta? Sono in corso trasferimenti abbastanza di massa alla mountain bike (altra fondazione in mente: quella per propagandare la pronuncia giusta, mauntein baik e non, come ormai in tutta Italia, in una stupenda koinè linguistica da commuovere il grande Di Mauro, muntan baik), dalla mountain bike alla bicicletta sofisticata da competizione, da questa alla biciclettona nera di una volta. Il ciclista si segmenta, si ricompone in una usanza, una moda, una voglia.

hhhhhh

Le Olimpiadi di Sydney a proposito sembrano proporre Mario Cipollini per la strada, ma intanto c’è, nel senso che è immanente ed imminente, Paola Pezzo per la mountain bike. Ma esistono giornalisti e radiotelecronisti in grado di raccontare una gara di mountain bike? Non pretendiamo i cantori che accompagnarono i primi fasti del ciclismo su strada, ma qualcuno che sappia emettere parole giuste c’è, è stato “fatto” in questi quattro anni da Atlanta? O senza la scollatura di qualcuna non sapranno, non sapremo cosa scrivere, cosa dire?
Gli esodi dei ciclisti da lì a là non sono quelli dei giornalisti, ma insomma un po’ di compagnia alle mode, alle usanze, dovremmo riuscire a farla. Quel giorno che Paola Pezzo andò in fuga, noi arrancammo molto per inseguirla senza venire troppo distaccati.

hhhhhh

Quiz per chi si dice ciclofilo, ciclologo. Senza consultazioni, magari delle pagine di questa stessa pubblicazione, dire dove si disputano i prossimi campionati mondiali della strada, ed una volta dettolo a se stesso provvedere a posizionare su una cartina muta della Francia la località (Plouay, ci eravate arrivati?) in questione, e pensare a quale posto d’Italia potrebbe, per amore della bicicletta, impegnarsi nella stessa organizzazione.

Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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