«Qui vanno come pazzi», per citare il direttore sportivo Alessandro Giannelli. O ancor più, rammentando di buona grazia la spontanea autenticità dell’autore, quando correva in bici con la maglia futurista della Metauromobili, «in Spagna oggettivamente vanno troppo forte»: parole e sintesi del neomanager Riccardo Magrini. E ci piace citare così due sentenze di parte - di parte «pantaniana» vogliamo dire - in calce al ritiro del ciclista romagnolo dalla Vuelta España 2001. Un ritiro innanzitutto francamente inglorioso, lo si può sanzionare certo con facilità, in coda ad una trasferta del tutto inerte dal punto di vista agonistico e di conforto atletico e di immagine conforto sentimentale.
Eper inciso, basta parlare di calvario, con Pantani. Il calvario è una cosa seria. Lo si vive, o se ne muore, una sola volta. Ed in buona, se non in santa fede! E non capiamo, più terrenamente, in assoluto, il sorriso di Pantani, all’atto del suo ritiro, nell’ammiraglia, ad Ordino.Sorridere è un meccanismo che scaturisce dalla profonda serenità dell’anima, ed in tutta sincerità ci verrebbe da chiedere a Pantani quale sia mai questo recondito motivo - una bella giornata di sole, una inedita sensazione di gioia, o ben altro - che illuminava di gaudio un suo ennesimo peccato di orgoglio sconfinato, forse. Sul baratro, purtroppo, di una inattendibile presunzione.
Non sappiamo, ancora, e non sapremo forse mai, né che campione è stato, né quale ciclista è stato e lo sarà ancora Pantani, perché quell’omonimo in bici che indossa ancora il suo nome e la sua gloria, in gruppo, ciclista di fatto invero non lo è. E non ne racconteremo oltre agli appassionati. Possiamo tollerare di essere presi in giro noi, che a tanto già abbiamo creduto, ma non accettiamo di poter diventare strumenti di un dolo istruito a spese di tifosi ed appassionati di strada: questo no.
Resta la curiosità di approdare al ciclismo che divulgherà Pantani nel 2002, dopo i ritiri cronici di questa stagione. Dopo l’addio da Gimondi, uomo saggio, e da Martinelli, uomo mite. Sarà una stagione da scalare più ardua del Mortirolo: per lui, per gli sponsor, per i team men, per i massaggiatori, per i compagni di squadra.
Fermo reestando che è di singolare pertinacia, da Capricorno e da romagnolo, circondarsi ancora di coequipers recidivi in fatto di doping et similia: Forconi, Fontanelli...Ma sono così inevitabili queste relazioni pericolose?
La velocità del ciclismo spagnolo, intanto, resta un mistero, o non è più un mistero, per nessuno. Alla Vuelta fioriscono quest’anno come non mai gli iberici vincenti, non ci sono più né don Chisciotte né sfigati Sancho Panza, sono tramontati i Fuente e i Lopez Carril.C’è Saiz, quel nobiluomo di staampo anglosassone che con la Once declinò il Tour del ’98, c’è Echevarri, lì dove un tempo c’era quel talento di Ragion di Stato di Luis Puig, presidente dell’UCI, che invece di denunciare il suo connazionale Pedro Delgado riuscì a fargli guadagnare il Tour dell’88, nonostante che l’atleta spagnolo fosse risultato positivo all’antidoping per «probenecid», un diuretico... Un diuretico al Tour, roba da non crederci... Solo che quella volta - quell’unica volta della storia - l’antidoping era stato troppo più veloce del doping, tanto da utilizzare una tecnica di depistage non ancora ufficiale, cioè non ancora controllabile o semmai inquinabile dai bracconieri.
Alla Vuelta España, dunque, si corre di più. Specie se di squadre spagnole, ovvio. Sedici spagnoli sui primo venti della classifica generale, o giù di lì, semmai con l’abbuono di un danese, Moller, e di un colombiano, Botero, a loro tempo già sospesi per anabolizzanti e presto riciclati! È in gran spolvero Sevilla, baby face della Kelme, già fermaato per abuso di caffeina. Ed è di nuovo in auge Jimenez, uno scalatorissimo per definizione, che oltre i Pirenei si perde.Uno che vince più di Rominger: in Spagna, chiaramente.
In Spagna tutti così veloci, pure uno dei Gonzales de Galdeano, quello fermato per nandrolone o l’altro, sine cura, tanto da vincere una tappa ad oltre 53 di media... E chissà come stanno, o che fine hanno fatto, quegli altri due superman di Hruska e Zintchenko...
E c’è alfine chi si sveglia, José Maria Perez, uno dei tecnici della Fuenlabrada, e addita il tracollo di Olano... «Ha vinto il Mondiale a 61% di ematrocrito, guardate come va adesso invece...»
Tutti troppo veloci gli spagnoli, ben più dei nostri vincitori celebri di recenti Giri d’Italia: Gotti, patetico, Simoni, per non dire dello stesso Pantani.Certo c’è qualcosa che stride, senza arrivare ad Indurain e al dottori Padilla, emulo di Conconi in terra di Andalusia, diventato poi guru dell’Atletico Bilbao.Ed è un qualcosa che si ascrive spontaneamente alla latitanza in Spagna di una coscienza pubblica e politica nei riguardi del doping. Già, in Francia e in Italia oggi c’è bene o male una legge di stato sul doping, come domani in Danimarca e in Svizzera forse: in Spagna, neanche a parlarne. E così nascono le Terre Promesse dello sport. E mentre i nostri campioni, con tutti i loro limiti e gli eventuali peccati, si ritirano, perché «gli altri» vanno troppo forte, ci sovviene di quando lasciò le corse Van Hooydonck, il fiammingo della Panasonic, ai primi anni ’90: «Non ce la faccio più, corro corro, mi alleno, ma trovo sempre un italiano che va più forte, cosi è troppo frustrante, basta!».
Viva la Spagna, dunque, terra di conquistadores e ciclisti completissimi, dove un tempo esistevano solo scalatori smiunti. E semmai ci diranno un giorno che il celebre dottor Terrados, il grande mago della Once è approdato al Real Madrid.E noi, ovviamente, ci crederemo.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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