Non dimentichiamo il dottor Rijckaert
di Gian Paolo Porreca
Non stiamo sulla notizia, stavolta. Perdonateci, voi lettori sovrani di tuttoBICI, che conosciamo così attenti e rigorosi. E ci scusi pure, per una volta ancora, il direttore, se non vi parleremo - in pulsante attualità - della personale simpatia per Ceruti presidente recidivo e del beau geste che sarebbe (stato...) chiamare al proprio fianco proprio lo sconfitto Moser, quale consigliere particolare, quale deputato privilegiato del ciclismo professionistico più arroccato... E se non vi riferiremo, da scrittori, in agilità e souplesse, ad esempio di quell’incontro intensissimo che abbiamo avuto con Pantani, all’Hotel Fiordaliso di San Felice al Circo, nel buen retiro di primo febbraio della Mercatone Uno: e che teniamo per noi. E dell’impressione personale, poniamo, che ci ha inferto l’immagine di una dolorosa onestà, talora accorata talora risentita nei nostri riguardi, di lato alla figura brunita del «Pirata», il cappellino ad hoc Armata di Mare, del devoto team manager Martinelli.
E della saggezza popolare rappresa, infine nelle parole di quel dignitoso, appena appena grigio cameriere di sala, Ovidio, dal nome di poeta, «è cambiato il Marco, eccome se l’è cambiato...».
Già, è diventato grande, di dispiaceri e giorni, il ragazzo in rosa.
Ma di fronte a storie in evoluzione, a dolori non obbligatoriamente autunnali, si staglia la lezione di chi non potrà conoscere ulteriori correzioni al proprio destino e merita così, sia pure da un giornale lontano, sia pure per destinatari misteriosi, una prioritaria riflessione.
Nel fondo di un inverno che ha dedicato una domenica al diritto della memoria, pure per lo sport, ci auguriamo infatti che non vada disperso il ricordo del dottor Eric Rijckaert, il medico belga, 57 anni, denunciato come primo attore nello scandalo Festina del Tour ’98 e già in precedenza, a Gand, in altre vicende di traffico e somministrazione di sostanze dopanti.
Rijckaert, il medico della squadra franco-andorrana, coinvolto con il massaggiatore Voet ed il team-manager Roussel, e la connivenza degli atleti, da Virenque in giù, nella articolazione di un vero e proprio doping di squadra, è morto sabato 27 gennaio, per le sequele di un carcinoma polmonare metastatizzato. Di lui, della sua familiarità diciamo discreta, se non quasi bonaria, con Epo e Gh, il mondo del ciclismo aveva derivato un soprannome emblematico: il dottor «Punto», nel senso di un target farmocologico da velocità controllata, da... utilitaria. Come in contrapposizione al più celebre, nostrano dottor Ferrari, sotto inchiesta a Ferrara ed a Bologna, quello della «Gewiss» dei roboanti eroi che meravigliò il mondo: «Ferrari» di nome e di fatto, per quanto di allusivo ad esasperazioni d Formula 1.
Di Rijckaert, moglie e due figlie ragazzine, ricordiamo il volto smunto, gli occhiali da miope; una immagine dimessa di sé e del mondo, rassegnato di fronte all’incalzare delle inchieste e delle domande, in quel torrido luglio ’98. Si dichiarò subito colpevole, il medico belga: obiettando solo, con pertinacia, che quel po’ di Epo che dava lui non faceva male a nessuno... Ma il giudice istruttore Keil, nell’atmosfera di giustizia spettacolare e da caccia all’untore di quell’estate, non avrebbe ascoltato ragioni: e gli avrebbe comminato, per quella vicenda di pratiche dopanti, ben tre mesi di carcere preventivo!
«Mi hanno fatto coraggio solo il pensiero di mia moglie e delle mie bambine. E l’unica compagnia era un buon libro», avrebbe poi raccontato, sui confini del silenzio, il dottor Rijckaert. Con il pudore di non chiedere pubblicamente, come tutti noi, quanti mesi di carcere preventivo il giudice Keil ritenga misura idonea per un sospettato, poniamo, di omicidio volontario! Noi riconosciamo oggi con serenità - e lo ricordiamo a voi lettori che certo sapete quanto abbiamo censurato certe abitudini del ciclismo - il dottor Rijckaert, ad ogni buon conto, come l’unica vittima totale di doping ed antidoping combinati, di questi anni. L’unico che ha pagato davvero di persona, a prezzo intero, senza condizionale: ed in quale modo struggente. Se solo ci viene da supporre, infatti, che possano essere stati proprio quei tre mesi francamente superflui di «garde a vue», per l’incalcolabile danno psicologico e fisico determinato in un soggetto verosimilmente già minato, ad accelerare i tempi e la malinconia di una malattia che non concede miracoli.
Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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